martedì 22 maggio 2012

L'apprendimento di uno stato interessante pt. 3

Poliambulatorio. Appena in tempo.
Ho dato la ricetta alla donna dietro al bancone, lei lo ha guardato e ha provato a trattenere (senza riuscirci) una risata.
"Scusa, è che credevamo che oggi avessimo finito con le analisi". Ma non c'era proprio un cazzo da ridere.

Ho pagato i miei 20 euro e 60 centesimi e mi sono seduta. Tempo cinque minuti e avevo una siringa al braccio. Tempo sette minuti e sono uscita con un po' di sangue in meno.
"I risultati puoi venirli a prendere stasera verso le 18.30".
Lo sapevo, sì. Sono uscita a passo svelto, mi sono accesa una sigaretta e più mi avvicinavo alla macchina più avevo voglia di correre verso di lei, per rifugiarmici dentro.
Il suono della portiera che sbatteva, e poi il nulla.
Avevo appena realizzato che non sapevo cosa fare, non sapevo dove andare, non sapevo come affrontare la cosa. Sono stata mezz'ora chiusa in macchina, e sentivo la solitudine di un milione di persone addosso. La solitudine che mi stavo creando in quel misero spazio accartocciato tra il metallo e la benzina. Volevo accendere la macchina e partire, ma ero lì, bloccata.

Volevo fare tutto da sola, volevo assumermi per una volta la piena responsabilità di ciò che sarebbe accaduto. Ma non ce la facevo, mi rendevo conto di aver bisogno di urlare il mio pianto addosso a qualcuno, ma a fianco a me il sedile era vuoto.

'Ho qualcosa dentro che sta crescendo, qualcosa di forte, che mi sta cambiando. E forse ho raggiunto il terzo mese, forse quel misero ciclo di tre giorni di un mese fa era solo una di quelle perdite che accadono in gravidanza. Forse è la fine.' Me lo ripetevo come un mantra. Avevo paura, una grande paura.

Così ho chiamato F e l'ho detto per la seconda volta.
"Cosa? Senti, ora non posso parlare, sono a casa di mia nonna sulla Tuscolana, non posso venire, chiama G"
E io ho chiamato G in lacrime, ma non rispondeva. L'Università, sapevo che era lì.

Così ho chiamato il mio ragazzo, che non era a scuola e che però era l'ultima persona con la quale volevo condividere la notizia, e soprattutto con la quale passare quelle interminabili ore di attesa.
Avrei dovuto attraversare la città come al solito.
Ma G ha richiamato, e sarebbe tornata a casa in venti minuti. Così ho inventato una scusa per K, e sono tornata nel mio quartiere.

Avrei dovuto aspettare. Sono entrata in un Todis e ho scelto la birra più alcolica che c'era, una certa Best Brau in lattina, col 9,8% d'alcol. Erano le 11 di mattina e io desideravo solo sentire tutto un po' meno intensamente. E poi avevo paura di dirlo a G, avevo paura di un giudizio, di un 'te l'avevo detto'. Io odio i giudizi, mi terrorizzano.
L'ho vista in lontananza, ci siamo avvicinate, e io l'ho abbracciata. Di solito non ci abbracciamo mai.
Mi sono sentita nel posto giusto, finalmente. Fra le braccia della mia migliore amica.Una delle poche persone per le quali ho imparato a nutrire un amore spassionato ed incondizionato. Ho ripensato che eravamo tornate un po' bambine in quell'abbraccio. 13 anni di amicizia, e tutto mi sembrava tenero e dolce come il primo giorno, come quando avevamo 7 anni. I nostri corpi, le nostre voci, i nostri occhi.

"Sono incinta"
"Oh mio Dio. Raccontami tutto."

4 commenti:

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  3. Direi che ora possiamo allegramente cancellare.
    Chè se uno legge le storie, poi vuole spiegarsi tutto sulla base di quelle.
    E invece no, io sono solo un po' stronza, e molto fiera, e un filino fuori di testa.
    E sticazzi :)

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  4. io invece avrei avuto gli occhi per leggerle.
    lo sapete entrambe.
    e per non accontentarmi di quelle storie per cercare di spiegarmi tutto.
    voi due.
    e se c'era una persona capace di arrivare fin qui prima di me, beh solo lei, poteva esserlo.
    era ovvio.
    ma in qualche modo ci sono. ora si.

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