martedì 13 agosto 2013

Da un'altra parte ma da un'altra parte.

Sono in questa Russia. Me ne stanno accadendo di tutti i colori. E stavolta ho deciso di coinvolgere anche la gente che conosco. E quindi ho spostato questi giorni molto strani da un'altra parte.

Eccoli, se volete:

http://fuorisedefuoriluogo.blogspot.ru/

Io cercherò di leggervi perché non so più nulla. No u menja ne vremja. Il tempo è quello che è.

venerdì 12 luglio 2013

Aggiorniamo la fottuta agenda del cazzo.



Insomma.
Domani, sabato 13 luglio ore 9.00: alle prove per lo spettacolo. Avrò una voce celestiale a quell'ora.
Domani, sempre: compleanno di Trentenne, che finalmente avrà trent'anni e così sarà più lecito chiamarlo Trentenne. Non ho fatto nemmeno un pensierino, oggi non mi andava di uscire di casa. Non so se ci vedremo. Non so nemmeno se gli scriverò qualcosa. Tipo un "Buon compleanno". Per sms magari. Oddio. Che schifo. Boh. Comunque prima o poi dovrò chiarirmi le idee al riguardo, perché questa relazione mi confonde parecchio.
Domani, ergo, impegni serali dubbi.
Dopodomani, domenica 14 luglio. Studiare come una folle. Preparare l'ansia da spettacolo, preparare l'ansia da esame. Ma ora ho un nuovo migliore amico. Si chiama Xanax.
Dopodopodomani, lunedì 15 luglio: studiare, ma tanto non lo faccio. Ore 20.00: dovremmo cominciare con questa farsa.
Dopodopodopodomani, martedì 16 luglio, ore 9.00: fottuto esame di merda. Che odio con tutto il cuore perché completamente inutile e per un mucchio di altre ragioni che non ho voglia di spiegare.

Dopodoché libertà. Saranno giorni vaghi, partirò quasi subito per Roma. Non torno a casa da sette mesi. Uao. Come passa il tempo quando ci si diverte. Avrò immense rotture di palle. Tipo: parenti da soddisfare, amici da soddisfare, amanti (...bah...) da soddisfare, luoghi da soddisfare. Libertà un cazzo.

E poi me ne vado un mese a San Pietroburgo. Da sola.
Perché io ce l'ho un casino nel sangue questo senso del pericolo. Sono una che l'istinto di conservazione ce l'ha proprio innato, eh.
Perché la Grande Madre Russia è un posticino tranquillo.

Ma io andrò. E sarà divertentissimo. E vi terrò aggiornati.
Ah, e se avete qualche dritta russa fate pure eh.
Vi lascio con questo splendido video.
Guardatelo, sul serio, è splendido. Sono orgogliosa di imparare la lingua di Grande Madre Russia, dovreste farlo anche voi.

Per il pane e per la pace.
(Sì, sono entusiasta, sì)


lunedì 1 luglio 2013

Arianna finalmente torna a casa.


No, non sono incinta. In realtà le possibilità erano scarsissime, ma come ben sapete io sono parecchio sensibile all'argomento e mi basta poco per allarmarmi. Tanto. Parecchio. Talmente tanto che non sono più riuscita a stare a casa mia, da sola. E allora ho fatto la valigia e me ne sono andata in un altro mio posto sicuro qui a Trieste, per una decina di giorni. In un'altra casa piena con due paia di mani pronte ad accarezzarmi, e sono riuscita finalmente a piangere urlando la mia storia.
Mi sono attivata. Ho l'ultimo esame da dare (a parte russo che slitta a settembre, perché la SSLMIT è pur sempre la SSLMIT, e 7 esami in due mesi non sono possibili), e non potevo permettermi di cadere un'altra volta per queste sciocchezze. Così sono andata da una bella neurologa che assomigliava tanto alla mia psicoterapeuta di Roma. Mi ha dato un po' di cosine buone per l'ansia e qualche recettore della serotonina. E così, piano piano, salgo su. Non proprio, ma almeno non ho attacchi pazzeschi ora.
Quella casa l'ho dovuta lasciare un po' di giorni fa. Mi sono sentita subito male. Così mi sono rifugiata dal mio Trentenne, almeno per la prima notte. Ora sono autosufficiente e riesco a stare da sola. Faccio anche le lavatrici.

E quindi. Visto che ho ricominciato a scrivere qui e l'entrata non è stata delle più felici, vi racconterò una bellissima storia.
La storia di Arianna che approda sull'isola di Creta dopo tanti anni di esilio.

Un giorno di qualche tempo fa il Trentenne, nonché mio capo, mi chiede: "Senti, ma ti va di venire a Grado con me?"
Io, che sono un San Bernardo e quindi amo quando mi si porta a spasso fuori non ci penso due volte: "Certo! E cosa andiamo a fare a Grado?"
"Ho un'isola". Una piccola isola nella laguna gradese. I nonni erano pescatori.
E così rubiamo la macchina di un suo amico e partiamo. Mettiamo su la musica del gruppo che abbiamo scoperto insieme (in realtà gli ho detto io di prestarci attenzione mentre lui stava chiacchierando, ma non lo ammetterebbe mai) e cominciamo la nostra ora di viaggio. Un viaggio che incrocia il mare e si perde per quelle pianure che ancora, nonostante i mesi passati qui, continuano ad avere uno strano effetto su di me. Abbandoniamo la macchina. Una breve salita a piedi e d'improvviso l'acqua. Una barca. Dei remi strani.
Perché sì, a Grado vogano in un modo strano. Sono in piedi, e la forcola è come se fosse tagliata a metà e ci vuole una particolare tecnica per muoversi, altrimenti rischi di perdere il remo. Io non sono mai salita in barca. Sono tutta emozionata. Vedo queste isolette, ci passiamo attraverso, l'acqua piatta, il sole a picco, solo il rumore del nostro movimento.

Ed eccola, la piccola isola. Mi arrampico sulle assi di legno del piccolo molo con la fatica impacciata della cittadina, e comincio a guardarmi intorno. Uno spiazzo, una lunga tavolata, e poi tre piccole casette. Una con il camino, un cucinino e un'altra con un paio di camere. La cucina è bellissima, perché è fatta a vetri. Una specie di corridoio lungo, e per tutta la lunghezza questa finestra gigantesca che da sull'acqua. Sembra di essere dentro una nave. E' tutto diroccato, tirato su alla meno peggio. E' tutto bellissimo. Intorno invece c'è erba, tanta erba, ed alberi, e anche un cespuglio di rose. E dietro ancora una parte coperta, io lo chiamo il "parcheggio delle barche", non ho idea di come poterlo spiegare. Faccio il giro dell'isoletta circa cinque volte, trovo immediatamente il mio posto preferito. Una punta rialzata che sporge più delle altre. Mi metto in bilico, lì, sotto di me il mare, e mi guardo intorno. Una calma mi assale. Mi prende alla gola.
Mai ho provato una sensazione di pace e tranquillità maggiore. Tutto è sereno, lì. Mangiamo, beviamo un paio di birre, ci facciamo un paio di canne, ci sdraiamo sul molo. Ci parliamo poco. Io non ne ho voglia, ho solo voglia di stare lì ad ascoltare.
E l'unico suono da ascoltare è quello dell'acqua. Acqua ovunque. Lo scroscio dell'acqua sotto le assi di legno, sotto di me, il rumore della fontana che non smette mai di esplodere davanti a me, quello dell'acqua sull'acqua causato dalle ali dei cigni pronti a spiccare il volo, lontano da me. Non avevo mai visto un cigno volare prima d'ora.
Mi sembra di poter capire la pace. No, non penso di poterla sentire o provare. Solo di capirla.
Il pensiero della morte mi sfiora per un attimo. Sì, per un attimo penso di voler morire.

Il Trentenne mi prende la mano, di tanto in tanto. Io mi avvicino e sfioro la sua guancia con tutto il mio viso, affondando le dita nella sua barba, poi lo bacio delicatamente sulle labbra. Ma in realtà ci tocchiamo poco.
Nell'isola c'è tanto da fare. Molto da lavorare. Infilo le mani nella terra, scavo, sorrido. Mi piace. Strappo le erbacce, pulisco per terra.
Arriva la sera ma è il tempo ad essere strano e velocissimo, nonostante l'immobilità di quel posto. Un sole scende a metà dentro l'acqua. Un riflesso perfetto. Il mondo capovolto, rosa, arancione, in basso e in alto. E' ora di andare. Ma si alza un vento fortissimo. La corrente decide di renderci le cose difficili.
Ci mettiamo tantissimo ad arrivare dall'altra parte. Intanto i pesci saltano. Il Trentenne mi giura che una notte tutti quei pesci si erano buttati proprio dentro alla barca, mentre stava vogando. Io lo ascolto ma non rispondo. Mi giro e gli do le spalle, dico addio all'isola di Creta con la commozione di una regina che sta abbandonando il suo popolo. Salgo su un altro molo, pronta ad infilarmi in macchina.

I viaggi di ritorno a me piacciono tantissimo. Portano con loro la malinconia del viaggio. La stanchezza, ma anche quei pochi rimasugli di serenità che sono ancora lì, tutti pronti da rivivere con calma in quei chilometri percorsi troppo velocemente. Quando arriviamo a Trieste gli dico che voglio viaggiare ancora un po'. Facciamo qualche giro. Poi mi rassegno. E l'isola ora non c'è davvero più.

E' strano come il destino faccia incontrare le persone. L'uomo con l'isola e la fanciulla Arianna.
Ed è strano come io qualche volta pensassi che il Trentenne avesse degli atteggiamenti molto simili a mio padre.

Forse quella è stata veramente la mia isola. In un altro mondo, in un'altra epoca, in un altro tempo.

Vedete? Qualche volta faccio anche delle belle cose, io, oltre alle cazzate.

sabato 15 giugno 2013

Chi non muore si ripete.

Mh.
Sì, ancora sono qui, in realtà.
E' che faccio cazzate su cazzate.

Vi ricordate che in un post parlavo delle mie due future vittime, l'intellettuale e il trentenne?
Ecco, mi sono buttata sul secondo.
E' stata una cosa lunga ma ben elaborata.
E come al solito finisce che poi alla fine mi faccio fregare dal mio stesso gioco.

Non ho avuto nessun altro fra lui e il francese del luglio scorso. Pensavo di aver superato tutto ma con lui sono tornate tante paranoie. Sarà che poche settimane fa passò un anno da "quello", la cosa che non riesco più a nominare. Sarà che vedo rimandi ovunque. Ma io scopro ogni giorno di essere stata seriamente toccata dal "fatto".
Soprattutto ora che ho il timore che il "fatto" possa ripetersi.

Sì, sono una cretina.
Lo so. Stavolta, se sarà veramente così, me lo merito.
Sono una povera scema, un'inetta, una che non impara mai. Alla fine dei giochi, svelata la maschera, sono la solita sottomessa, debole, incapace di affrontare la vita.

Ho paura. Stavolta io non so se ce la farei ad affrontare tutto con quel tipo di forza e determinazione. Non lo so proprio.
Mi odio tantissimo. Vorrei far scomparire il mio corpo una volta per tutte.

Oh, che bel rientro in scena, eh?
Fossi in voi mi manderei a cagare.

sabato 16 febbraio 2013

You're an angel, I'll keep you from harm, talk to me sweetly, break both my arms.


Sono guarita. Fortunatamente non devo più operarmi.
Sono fuori di testa. Non dormo properly da due notti. Mi sembra di perdere tempo.
E io ho i miei ritmi. Ho 100 verbi irregolari russi da imparare, pur sapendo che il compito si baserà su altri. "L'importante è che sappiate le regole". Quindi io so 100 verbi russi, e il compito andrà male lo stesso.
Sono state due settimane di "pausa" dall'università, che sommate a quelle della malattia... Insomma, più di un mese dentro casa. Assurdo.
Ai miei non ho detto nulla. Avevo paura mi chiedessero di tornare, e io a Roma non voglio tornare.

Dicevo, sì. Sono fuori di testa. Passo poi la notte a fare dettati di francese, e poi mi metto a disegnare. Comincio verso le 2 circa di solito. Metto lui, il mio cantante, in sottofondo e il tempo comincia ad assumere forme strane. In un secondo arriva l'alba. Improvvisamente vedo la luce arrivare, e allora è come se mi svegliassi da una trance. Guardo la finestra, poi guardo il foglio. Poi guardo la mia mano sinistra. Le dita sporche di carboncino e matita e penna e pennarello. Segni neri in faccia. Un bicchiere pieno di sigarette. Dove sono?

Mi viene l'ansia. Ora non posso dormire, sono le 8 di mattina. Bevo tre tazze di tè. Guardo un film degli anni '60 in francese che mi ha passato un mio amico hipster,, ma scopro che mi annoia, è troppo lento. Dopo mezz'ora spengo. Vado su Internet, controllo le mail, dei Couchsurfers vorrebbero venire a Trieste. Una francese. Sarebbe bello ospitare una francese. Chissà. E' che in mezzo ho degli esami. Un russo. Sarebbe bello ospitare un russo. Ma dei russi non mi fido molto.
Controllo i turni per le serate di venerdì e sabato della mia tana. Nessuno si è messo per il turno di sabato, mi offro io e mando una mail al boss. Fisso l'anta di vetro della libreria, intontita, e poi un'idea mi fulmina. Farò dei disegni e li attaccherò dietro al vetro, così non si vedranno tutti quei libracci scolastici.
Ma non ora, devo ponderare.

Prendo i miei tre disegni. Prendo uno dei due quadri a terra comprati da Ikea a Villesse nei quali misi due poster del mio amato Mucha comprati a Praga. Apro quello che non ha le lunghezze giuste per il poster. Ci metto i miei tre disegni, lo appendo al corridoio. Prendo altri poster, di Klimt, anche se Klimt non mi piace, di Schiele, anche se è pornografico. Attacco tutto al muro.

Mi siedo per terra, all'entrata. Guardo tutto quello che c'è e lo annoto. Attaccapanni, specchio, quadro, armadio, finestra, scarpe, ombrello... Mi sposto. Prendo quattro dizionari. Vado in camera e mi siedo sul tappeto. Cerco tutte le parole in francese, inglese, norvegese e russo. Le scrivo su dei post it colorati e li attacco sulle cose.

Pulisco la cucina. Mi cade tutto il tè per terra. Lascio così, ci passo coi piedi sopra, non m'importa. Sto finendo il cibo, ma ho ancora le barrette. Sti cazzi. Sto finendo le sigarette. Devo uscire, sì. Cazzo, che palle.

Alle 12 posso cantare. Prendo gli accordi delle canzoni di lui, prendo la chitarra, mi metto in bagno, che l'acustica è migliore. Suono, canto. La voce è roca, è stanca, nemmeno lei in fondo ha dormito. Ma mi piace. Poi ricanto la stessa canzone una seconda volta e mi fa schifo. Mi arrabbio. E allora suono Gnossienne n1 su quel pianoforte scordatissimo, e mi viene in mente il film Paris di Klapisch, e poi mi viene in mente che anche in quel film francese di quattro ore fa c'era lo stesso pezzo.

Chiudo gli occhi mentre la suono. Sì, Gnossienne è facile, posso permetterlo. E con gli occhi chiusi torno a certe sensazioni e alle strade di Parigi, le mie e quelle di tutti i registi e gli scrittori incontrati sulla mia via.
Poi ascolto della musica norvegese e cerco di cantare in norvegese. E' divertente.

Continuo a studiare russo. Parlo con un paio di amiche, mia zia mi chiama, mia madre mi chiede cos'ho fatto di bello all'università via skype, io le dico un sacco di cose. Guardo un telefilm stupido in inglese, ma a me fa tanto ridere. Leggo La danza di Natasha di Figes. Ho l'ansia perché non sto studiando tanto, in fondo.

Mi metto alla scrivania. Prendo un foglio e scrivo una cosa che volevo scrivere da tanto tempo, ma ora già non la ricordo più molto bene. Arrotolo il foglio e lo lascio cadere dentro una delle decine di bottiglie di vino che ho conservato. Prendo uno dei dieci tappi che ho conservato, chiudo la bottiglia e la metto sull'armadio di fronte all'entrata. La bottiglia sembra comunque vuota. Sorrido. Mi sembra un gioco perverso. Chiunque entri qui sfiorerà una delle mie più intime considerazioni ed emozioni, e nemmeno se ne accorgerà.

Mi metto a letto. E metto la sveglia fra tre ore.
Mi sveglio e sono sveglissima e passo l'aspirapolvere.

Il cielo si fa più scuro. Bevo altro tè. Gli occhi sempre più aperti. Guardo il festival, un po' non lo guardo. Bevo tè bevo tè bevo tè.

Leggo delle cose sulla storia e la teoria della traduzione, mi stufo quasi subito.
Si fanno le due.


La sua musica mi viene a chiamare.
Tutto ricomincia. Un'altra volta.

Sono fuori di testa
Sono fori nella testa
Suono fiera alla festa

Sto facendo alcune considerazioni importanti. Magari poi le dirò anche, fra un po'.

Sto diventando pazza.

Mi piace. Me ne compiaccio.

lunedì 4 febbraio 2013

Ti scrivo una poesia, ma io non so scrivere poesie.



Ancora tengo con me quel filtro arrotolato dentro ad un biglietto della metropolitana di Milano,
che nascondesti nelle fessure dei grandi sassi della casa di un paese della Toscana.
Il mio posto.

 Del mio posto ti parlai sopra un letto sotto le assi di un legno che strideva dal dolore,
circondato da un bosco pieno di puttane
e da scogli di terra
e da sogni spezzati e rinati ed ancora spezzati
e fiori profumati del maggio che si trovava alle porte di una Roma troppo stretta per noi.
Ma soprattutto per me.
Ti parlai dei miei anni nel calore dell’infanzia,
degli incubi che mi soffocavano nei suoi vicoli e dei gatti che mi seguivano nelle piazze,
dei bambini dai quali scappavo, intimidita
e che nessuno in quel paese era mai arrivato con me.
Chiudevo gli occhi e sfioravo la tua mano, e il buio di quel maggio ci entrò dentro
esattamente come tutte le altre notti della nostra vita.
Ti parlai del mio paese
ti parlai dei miei viaggi che avrei compiuto nel gelo sceso sui miei vent’anni,
e ti svelai, stringendo la mia voce al tuo orecchio,
che non sarei più tornata.

 Noi non ci amiamo.
Lo sigillammo con un bacio.

 Attraversai le montagne col nostro giuramento stretto fra le labbra
Mi infilai nelle città degli altri nelle vite degli altri nei letti degli altri.
Attraversai il mare con la nostra promessa rinchiusa fra le palpebre degli occhi
Lasciai cavalcare il imo spirito fra le foreste dell’Inghilterra
attenta a non ferirmi le braccia con i suoi rami, attenta a non cadere sulle sue radici
Ma un vento nato dai tuoi respiri mi parlò di te
E di come giungesti alle colline silenziosamente
Ed io corsi per miglia fino alle alte mura,
fino alle fessure dei grandi sassi,
con la nostra bugia stretta in un pugno.
Nessuno era mai arrivato lì con me
e  tu eri già sparito.

 Stringevo il tuo filtro ed in bocca avevo già il mio,
seduta sugli ultimi gradini della fortezza.
Le labbra secche, gli occhi vuoti, le mani insanguinate.
Il mio posto violentato dalla tua presenza, i miei incubi ormai svelati a te.
Tenni il tuo filtro ed il mio lo gettai lontano, regalandolo al tramonto.
Mio padre posò la sua lacrima sulla mia spalla e mi sussurrò che era tempo di andare
Tempo per me di non tornare mai più.
Percorsi le strade del disgelo di settembre.
Il vento di questa città mi parla ancora,
il vento del nord continua a usare la tua voce
Gioca a torturarmi.

 Accendo una sigaretta e penso al tuo filtro avvolto in quel biglietto.
Dentro c’è il nostro egoismo, la nostra paura
Dentro ci sono i mesi dell’assenza, della distanza.
Dentro ci sono tutte le stagioni che non abbiamo mai vissuto
Persino quella di stanotte.
La neve di Trieste, la pioggia di Roma.
Quella Roma che mi soffocava,
Quella Roma che dentro ha te,
L'unica cosa che mi da respiro.

 Io ho viaggiato tanto. Ho lasciato tanto.
Eppure, penso alla tua bocca, e trattengo un sorriso.
Io, a Milano, non ci sono mai stata. 

venerdì 25 gennaio 2013

Ridere. A dirotto.

Io non posso crederci!
Sì, qui bisogna ridere! As-so-lu-ta-men-te!
Ridere in faccia alla mia vita, ridere in faccia al mio destino e all'ironia di questa sorte così pazza ed imprevedibile!
Sì, bisogna ridere tanto.
A dirotto, come dice una certa persona.

Perché, sapete, io non so cos'altro fare, ve l'assicuro! Io non so se tutto sarà sempre così dinamico e confuso e velocissimo, ma se è così sarà veramente interessante!

C'è una forza oscura, o benefica, o comunque superiore, che mi sta mettendo alla prova in un modo pazzesco.
Ma guardate, ragazzi, queste non sono semplici interpretazioni, è la pura verità. La Verità, cazzo! C'è qualcosa o qualcuno che mi pensa, non so che progetti abbia per me, ma sicuramente si diverte tantissimo. Quindi perché non dovrei divertirmi anch'io, davanti ai miei fatti della vita?

Davanti ad i miei io, io, me, io, moi, je, ja, me, i, jeg, ich. Secondo me la prendo nel verso sbagliato. Non ho l'ironia giusta, non ho un senso dell'umorismo adeguato alle situazioni. Secondo me vogliono solo farmi tanto ma tanto ridere.
Secondo me qualcuno vuole che io gioisca. Che io sorrida.

Amaramente, ma sorrida. E questi miei sorrisi sono i più puri e sinceri che possano esserci.

Perché io non posso proprio crederci! E' tutto così circolare, la storia si ripete, sempre, su piani quinquennali. Ed è tipo-cioè-regà-mo-ve-lo-dico-n'attimo-ve-lo-sto-a-dì TROPPO 'N TAJO ve-l'ho-detto.

Ed è divertentissimo il fatto che io, dopo tre anni, abbia avuto una ricaduta! AHAHAH! Stupendo! Esilarante!
E' divertentissimo il fatto che io, dopo tre anni, dovrò incontrarmi ancora con un casino di dottori! MA vi rendete conto? Cambia lo scenario, adesso qui c'è il mare, ma la storia si ripete! Chi lo diceva, Vico? Vico è un fottuto genio!
E' divertentissimo il fatto che io, dopo tre anni, debba nuovamente soffrire le pene dell'inferno ed un dolore fisico pressoché intollerabile!
E' divertentissimo il fatto che io, dopo tre anni, dovrò operazioni un'altra volta!
Ed è divertentissimo il fatto che la mia vita si fermi di nuovo, per mesi e mesi! Mesi e mesi a casa, mesi e mesi di malattia e di prognosi e di cure e di recupero e di guarigione e di farmaci e di letto e di tutto!

E poi vengono a dirmi che io sono la solita ragazzetta che ha problemi ad accettare il proprio corpo. E GRAZIE AL CAZZO. Mi prende per il culo! Come posso prenderlo sul serio??? Direi che sono più che giustificata! E ringraziate anche il fatto che non me la prenda troppo con mia madre, che mi ha creata così debole e piena di robe congenite di merda! Anzi, troppo matura sono!

La mia vita è incredibilmente assurda! Una fottuta pagliacciata! Una delle ultime commedie di basso livello!

Ma cazzo, non ci vedete un'ironia strabiliante in tutto ciò? Sono due giorni che soffro come un cane eppure rido come una pazza! Una fottuta pazza!

RIDETE A DIROTTO CON ME, CAZZO.

lunedì 21 gennaio 2013

I fatti dentro ai fatti dentro ai fatti.

Mettiamoci il fatto che io adesso fra le mie mani avrei dovuto avere un bambino. Uno di quelli che non vorresti mai. E infatti non c'è.
Ma questo fatto lo mettiamo in realtà subito da parte. Che non so se mi va di scriverne ora.

Va un po' meglio. Perché?
Che cazzo di domanda è "perché"? E allora perché prima andava peggio? E chi lo sa? Non si sa.
C'è però una risalita. Non so se sarà costante eh.
Credo che probabilmente questa salita mi darà giusto l'energia necessaria per combinare un paio di casini.

Un giorno un ragazzo di facoltà col quale scambiavo sì e no due saluti mi scrive una sera dicendo che vuole venire a casa mia. Posso? Se mi dici dove abiti ti raggiungo.
Sì, prego. Anche perché se sei un altro che pensa di potermi scopare così facilmente sono ben felice di mostrarti quanto tu abbia sottovalutato la tua "preda". Insomma, se mi vuoi fregare ti devi impegnare, mica è così semplice. Vieni nella tana del lupo, che ti insegno io come si sbrana.
E lui entra e mi sembra la scena di un uomo che torna a casa dal lavoro.
Poi mi dice che mi farà ascoltare delle canzoni perché una come me non può non capire il grande disegno che si trova dietro all'elettronica e che mi farà avere il mensile sul quale scrive e che lui vuole diventare come Lello Voce e che deve assolutamente andare a vivere per un periodo a Parigi. Io gli faccio ascoltare delle canzoni perché uno come lui non può non capire il grande disegno che si trova dietro all'ambient e che gli farò avere il mensile sul quale scrivo e che voglio diventare come Keaton Henson e che devo assolutamente andare a vivere per un periodo a Parigi. Dopodiché ci sediamo per terra a bere vino da due soldi e a farci le canne continuando a parlare di roba molto intellettuale.
Ed è già la terza volta che accade tutto ciò. Non ci cerchiamo se non per vederci. Poi ci vediamo, prendiamo quei momenti e ce ne torniamo sulle nostre strade. Ed io non ne capisco bene il senso in realtà. Ci incontriamo a casa mia e ci parliamo come se fossimo amici di vecchia data.
Inutile dire che questa cosa mi piace. Mi stuzzica la testa in un modo anche un po' perverso.

Dopodiché mi sono scelta per compagno di giochi anche il mio "capo". E infatti io ci sto giocando parecchio.
Ma proprio alla grande.
Lui però ancora non si è accorto di quanto io lo stia prendendo in giro. E' che mi piaceva la grande sfida, riuscire a smontare le certezze di un uomo di trent'anni così sicuro di sé ed apparentemente equilibrato.
Ma diamine... E' fin troppo facile. Pensavo di dovermi impegnare almeno un po'. E invece il suo punto debole risiede nell'ego smisurato che possiede. E nelle insicurezze e ansie che portano manie di controllo, ed il suo essere compulsivo, e i suoi problemi nel riconoscere l'autorità e le manie di protagonismo. Basta dargli il la e ti sciorina tutta la sua vita. E tutti i suoi punti deboli, senza nemmeno accorgersene.
Quando sono entrata nel locale l'altra sera ha cominciato a sudare. E poi lì a chiedermi se il gruppo mi fosse piaciuto. E poi lì a stare fino alla mattina successiva a parlare. Di lui, ovviamente, senza che se ne rendesse conto. Ma anche lui è da apprezzare. Mi fa conoscere della musica veramente grandiosa. E' un appassionato, è uno che si è creato il suo piccolo regno, è uno da rispettare, forse, in un certo senso. Diciamo pure che se certe volte non mi prendessero gli attacchi da stronza, lo rispetterei anch'io.


Insomma... Mettiamoci dentro anche un altro fatto, legatissimo al primo di tutta la questione:

fatto sta che io voglio fare male a qualcuno. Una voglia matta. Sconsiderata. E lo ritengo un passo importante, visto che di solito faccio male a me stessa. Eh no. Stavolta tocca a qualcuno. Mi sto salvaguardando. Vedete che brava che sono? Mi prendo cura di me. E faccio male ad un altro.

Devo solo scegliere a chi dei due.

...Anghingò tre civette sul comò...

lunedì 14 gennaio 2013

Sta arrivando. Di nuovo.


Mi attacca, di nuovo.
Notti in bianco.
Forse è colpa di Keaton Henson. Sicuramente è colpa sua.
Non ho voglia di studiare. Non ho voglia di mangiare, non ho voglia di dormire, non ho voglia di fare nulla.
Ascolto ripetutamente le sue canzoni, quando finisce l'ascoltabile suono Gnossienne n1 e non arrivo mai all'accordo finale, continuo per ore ed ore senza fermarmi. Una litania. Una tragedia.
Ci sono delle lacrime che verso. Quando lo ascolto. E questo potrebbe andar bene. Ma  anche quando faccio la lavatrice. E questo sicuramente non va bene.

Forse sta tornando. Ho paura, sono molto allarmata.
Sentivo la forza, prima. Ora... Mi sembra di non averla più. Ho dimenticato come si fa a fermare questa cosa.

Non voglio tornare laggiù. Non voglio tornare in quelle parti della mia testa. Non voglio sprofondare come ho fatto l'anno scorso. Esattamente un anno.
Non voglio fallire di nuovo, ma non so come fare.

Cosa diamine ho che non va? Perché sono sempre così sbagliata in ogni situazione?
Sarò infelice a vita. E sarà solo colpa mia.

Ho paura.

P.S.: Quel disegno è l'unica cosa che sono riuscita a fare oggi. Si chiama Una Celebrazione. Mi sono celebrata così, perché c'è ancora dell'autocompiacimento nel mio malessere. Finché c'è quello niente sprofonda del tutto. 

domenica 30 dicembre 2012

Le viaggiatrici.




Il fatto, Julie, è che noi siamo viaggiatrici, ed essere una viaggiatrice significa anche questo. Prendere tante nuove cose e lasciar scivolare via tutto nel passato, e andare avanti, sempre avanti, sempre più lontano. Forse è per questo che sono tanto attaccata alle cose. Non mi piace buttare via nulla. Ho paura che tutto ciò che ho vissuto non sia mai accaduto ma, soprattutto, ho il terrore di dimenticare le cose importanti della mia vita. Certe volte mi hanno risposto che se le cose hanno un vero significato, allora non si scordano mai. Beh, non è vero. A me è accaduto molte volte, ed accetterei di gran lunga la tortura del distacco piuttosto che l’apatia della tabula rasa. Al tempo stesso però, quei ricordi non bastano più. I luoghi e le persone frequentati da sempre sono rassicuranti, ma non ci spingono mai alla stabilità. E allora io, te e tutte le persone come noi, cerchiamo di andare via. Non sappiamo di preciso cosa stiamo rincorrendo, ma lo stiamo facendo con una forza ed una speranza che forse un giorno ci porterà alla rovina.

Il viaggio ci ha illuminato. Il viaggio è la nostra maledizione. Non siamo capaci di pensarci in mezzo ad un luogo e ad un ambiente in  maniera permanente. Io non riesco nemmeno a concepirlo. Io vedo solo fasi e tappe davanti a me. Non c’è mai un posto abbastanza perfetto da spingermi a posare le valigie, a disfare i bagagli e a pianificare una vita. Guardo sempre oltre, guardo sempre al futuro e mai al presente. Non faccio in tempo ad arrivare in un posto e già dentro di me si agita l’impulso di volerlo scavalcare, di voler andare ancora più in là. Cerchiamo qualcosa, non sappiamo cosa. E non c’è mai un luogo in cui possiamo fermarci e dire “ecco, ora è tutto perfetto”. Non c’è mai la completezza. C’è sempre qualcosa che manca, che non ci fa stare intermante bene. L’ultimo pezzetto di un puzzle colorato perso chissà dove, in quali anni, in quali date e in quali traumi.

E’ questo che ci rende delle viaggiatrici. E’ ciò che siamo e saremo sempre. Non delle traduttrici o delle interpreti, né delle hostess di volo, né delle esploratrici o musiciste in tournée o aviatrici. Tutto ciò passa in secondo piano, è solo un adattamento verso la società da parte della nostra vera natura. Del nostro istinto primordiale. E l’essere viaggiatrici comporta imparare sempre, in ogni momento. Conosciamo luoghi e persone. E per quanto riusciamo a creare rapporti veri e sinceri e fenomenali e unici nella loro episodica apparizione, quei momenti grandiosi che solo le avventure ti possono regalare, sappiamo dentro di noi che ciò non durerà, e dovremmo lasciare tutto ancora una volta. Lo stiamo già facendo a Trieste.

Ed è per questo che io e te non potremo mai più tornare a vivere a Roma. Abbiamo compiuto il grande passo, e non possiamo condurre delle vite parallele in due diverse città. No. Roma è stata la nostra casa per anni, lì ci sono i nostri amici, i nostri legami più stretti. Questi rimarranno sempre, ma non saranno mai uguali a com’erano una volta. Mai più. Qualcosa cambia, si sfalda, le vite scorrono, la tua e quella degli altri, e si ramificano e prendono strade opposte. E quegli incontri con i ricordi del passato diventano soltanto degli incroci di diversi mondi. E non sappiamo mai cosa succederà, non sappiamo se quelle persone per le quali eravamo punti di riferimento e che lo erano per noi, cesseranno di essere tali. Se un giorno loro si sveglieranno e penseranno che forse ce ne siamo andate non solo per le opportunità e la curiosità, ma perché anche loro non erano abbastanza per noi. Chissà se un giorno crederanno che le abbiamo tradite. Chissà se ci perdoneranno, loro, che non cambierebbero mai quartiere né lavoro né fidanzati.

Eppure noi continuiamo a viaggiare. E quando torniamo a casa ci accorgiamo che questa non esiste più. E in quell’esatto momento ci rendiamo conto di aver fatto una scelta importantissima, una scelta che gente come noi non potrà mai più rinnegare. Ormai abbiamo dato inizio alla nostra avventura dalla quale non possiamo tornare indietro, e dovremo contare esclusivamente sulle nostre forze. Abbiamo scelto la libertà e l’indipendenza, ed è per questo che la solitudine ci ha scelto. Certe volte nutrendoci, certe volte sbranandoci. Ed è per questo che certe volte tu mi picchi senza sapere il motivo, solo perché hai una grande rabbia dentro, e sai che fra qualche minuto dovrai tornare a casa tua e lasciare la mia, di casa. Perché io non ti inviterò a dormire da me, e tu non me lo chiederesti mai, perché noi siamo indipendenti. Mi picchi ed io ti lascio fare, perché so cosa stai provando. E quando mi hai fatto male ti sei fermata, mi hai abbracciato, dopodichè mi hai chiesto di sedermi sul divano vicino a te, hai preso una mia coperta, ti ci sei rinchiusa dentro ed hai appoggiato la tua testa sulla mia pancia, e mi dicevi “scusa, se vuoi ti faccio i pancakes canadesi che ho imparato a fare nel Québec quando vivevo lì da piccola”, e io intanto ti accarezzavo i capelli e ti dicevo di non preoccuparti. E quei pochi minuti si sono trasformati in ore, insieme. Perché ognuna di noi avrebbe dormito nel proprio letto, perché è la nostra natura. Eppure in certe notti non siamo pronte. Certe volte il nostro essere viaggiatrici sembra una missione pesante e complicata. Un duro macigno che non possiamo mai appoggiare a terra. Mai, nemmeno una volta. Altrimenti cadremmo in pezzi.

Non possiamo fermarci, Julie. Non possiamo pensare ad una storia d’amore a lungo termine, né ad una famiglia. Non possiamo avere amici che vivano con noi il nostro quotidiano, perché noi non abbiamo un quotidiano. Non possiamo nemmeno avere amici come noi, perché quelli come noi prima o poi se ne vanno. Sì, Julie, è vero, noi siamo amiche. E credo che lo saremo per un lungo periodo. Però ci lasceremo, come abbiamo lasciato tutti. La nostra famiglia, le nostre radici, il nostro sangue. Conosceremo e faremo grandi cose, ma non saranno mai legate strette a noi. In ogni stretta di mano i nostri occhi sono già puntati sulla prossima persona alla quale presentarsi. Siamo irrequiete, sì. Abbiamo bisogno di essere sole con noi stesse, ma non ci bastiamo. Per i motivi più diversi. E’ per questo che siamo viaggiatrici. Ed è per questo che io e te, quando torneremo a Roma per le vacanze di Natale, non troveremo nessuno ad accoglierci, sebbene braccia e sorrisi siano lì. Sebbene la città si pieghi davanti a noi. Non c’è più nessun contatto, più nessun legame. Siamo delle profughe, come lo è stata mia madre, come lo è stata la tua. Forse sono state loro a passarci questo gene.
Ma una cosa è certa. Io e te a Roma non ci vedremo.
Io e te siamo destinate ad incontrarci in viaggio.
E ora è tardi. E’ meglio che tu vada a casa. Domani ci organizziamo per andare a Bruxelles, che in Inghilterra ho conosciuto una ragazza che può ospitarci lì.

giovedì 6 dicembre 2012

Flussi di cose. Anemie, sangue, sudori e sogni.


Due spettacoli, sabato. Per la giornata contro l'AIDS.
E' stato bello.

Il primo con attori assolutamente non professionisti. Ed era uno spettacolo divertente. Incomprensibile. "No perché quiero far uno espettiacolo che prende dal teatro arhentino anni '70, la sceneggiatura la facciamo noi", dice l'operatore, arhentino. Ed è venuto fuori qualcosa di assurdo e comico e triste. Così ho aperto le danze con Очи чёрные. E poi Bang bang. Finché la chitarra non si è scordata per il calore delle luci, e a Mercedes Benz avrei voluto lanciarla addosso al pubblico. Ma mi hanno detto che non si è sentito molto. Ma io mi ero incazzata.
E poi quello più serio. Quello in cui avrei dovuto recitare. Mafalda da giovane, una piccola sciacquetta. "Una volta gli uomini mi cercavano l'anima in mezzo alle gambe, il cuore dentro il reggiseno, la voce dentro le labbra". E poi una punk rannicchiata a terra che non riusciva a cantare, perché nessuno l'ha mai voluta ascoltare sul serio.

Beh. Sulla qualità delle prestazioni non posso dire nulla. Ma, rispetto a due anni fa, la voce non tremava. La mia voce non trema più, no.

Il primo spettacolo parlava dell'assenza. Parlava di un puzzle al quale manca un pezzo. L'imperfezione umana. Alla fine ci sarebbe dovuta essere una scena nella quale un passante trovava a terra un pezzo di puzzle, lo guardava, e lo buttava via. Ma è stata tagliata. No, poi è troppo ciclico, lasciamo l'imperfezione.

Fu incredibile quando, fra i due spettacoli, un attore togliendosi le scarpe, vi trovò dentro un pezzo di puzzle, probabilmente appartenente alle sue due figlie.
Ma era lì. Ed era un segno. I soliti segni che mi vengono a cercare. E allora la voce non ha tremato, allora sapevo che sarebbe andato tutto molto bene. E così è stato.

E ora c'è il vuoto. Perché i sabato mattina mi divertivo ad andare fin lì e a parlare e provare.

Hanno pubblicato un mio articolo. Sul giornale di strada del quale parlavo.

E domani comincerò a "lavorare" (perché ovviamente non mi danno nulla, essendo un'altra organizzazione di volontari) nella mia tana preferita. Quella nella quale mi infilo la notte a sentire musica. Sbiglietterò e farò la buttafuori. Mi piace tantissimo questa cosa.

Sì, solo fatti. Racconto fatti ultimamente. E' bello raccontare i fatti. Sono noiosi da leggere, ma mi piace sapere di averli.
Mentre in questo paio di giorni sto morendo dissanguata. Un'esperienza extrasensoriale, ve l'assicuro. Un'anemia storica, che non so da cosa dipenda. Non riesco ad andare a lezione. Dormo. Tantissimo. Ieri sono stata sveglia solo per 5 ore, e poi via, con le mie 12 ore di sonno alle spalle, e altre 9 ore successive. Provo un piacere unico nello sprofondare fra le coperte. Tanto da accucciarmi e cullarmi un po', da sola. Sogno tanto. Sogno cose strane alle quali non so dare un'emozione.
Sogno la bambina, figlia dell'operatore della quale mi sono innamorata. Sogno di avere uno sgabuzzino in più a casa. Sogno una pomiciata lesbica con una ragazza conservatrice canadese con la quale ho legato qui, e con la quale abbiamo parlato di omosessualità. E allora io me lo sono chiesta come sarebbe, se ci riuscirei. Se l'omosessualità vienga dalla genetica o è solo un fatto culturale. Perché altrimenti potrei esserlo anch'io. Potremmo esserlo tutti. Pensavo che l'unico modo fosse quello di sognare. Così ho sperimentato, a modo mio, come faccio sempre. Condizionandomi. C'ho pensato intensamente per l'intera settimana, anche prima di addormentarmi, e finalmente il sogno è uscito fuori. E... Nulla, non mi piaceva. C'avevo quelle due tettone lì davanti a me e non vedevo altro che carne, semplice, pulita, pura. Quindi, ora che l'ho provato, lo so.

Ho una sensazione di irrisolto, probabilmente dettata da una mia passività.

Cos'è che voglio fare veramente? Cos'è che voglio essere?
Ho una volontà?

Mi sforzerò di sognare anche questo.

giovedì 29 novembre 2012

Sorellanze silenziose.


Corro per le strade di Trieste. La borsa continua a scivolarmi dalla spalla, sudo tanto, il fiato si fa corto, eppure stringo fra le dita la mia sigaretta rollata alcuni minuti fa a casa. Ogni tanto aspiro.
Sono in ritardo, come sempre. Lancio il mozzicone dentro al posacenere, stranamente lo centro. Apro la porta, mi ricompongo, mi infilo nell'Aula Magna. La professoressa ancora non è arrivata. Le poche persone che mi piacciono sono assenti o a file e file di distanza. Così mi scelgo un posto appartato. Tiro su le gambe. Accendo il computer. E mi guardo intorno.

La mia facoltà, ma forse è meglio dire scuola, è stata sempre spiccatamente femminile. Me lo ripeteva la mia vecchia professoressa di inglese del liceo, che lei c'era stata, quarant'anni fa, me lo ripeto anch'io, che ci sono, ora.
E succedono delle cose strane, quand'è così. Quando ci sono femmine femmine femmine. Dappertutto. E' come se l'aria cambiasse il suo odore, se l'atmosfera mutasse la sua leggerezza. Non saprei dire in che modo, di preciso. Ma tutto cambia. La sensazione di essere fra sole donne immerge nella calma, nella tranquillità. Sempre e comunque. Nonostante le antipatie e la competitività snervante di molte di noi.
Perché in mezzo al silenzio pacifico, se proprio dev'esserci una nota violenta, questa sarà passiva. Sì, una violenza passiva. Un ambiente fiorito di belle teste produttive. Sì, guardavo tutte quelle teste. Sarà una raccolta fruttuosa un giorno.
Mi guardo intorno, ammiro i loro capelli lunghi e ben pettinati, e so che dentro le loro belle teste c'è anche qualcosa che le corrode.
Altrimenti non si spiegherebbe per quale motivo siano tutte così inconfondibilmente magre. Siamo 160. Leviamo una 15ina di ragazzi. 145. Leviamo le due obese. 143. Leviamo le normopeso. 113.
113 ragazze magre magre magre. Alcune con i segni visibili dell'anoressia, rare. Altre con dei geni fortunati. Altre semplicemente in bilico. Esageratamente attente, ma non malate.
Già.
Quando si ha a che fare con una lingua ci si diverte molto. Esistono milioni di modi per approcciarla, e quindi puoi scegliere di studiare in maniera molto libera. Forse troppo libera. Perché se non si ha la forza di volontà necessaria si rischia di perdersi un po'. Bisogna possedere tenacia. Ma soprattutto, in questa scuola, bisogna possedere  una spiccata inclinazione verso manie perfezionistiche.
Perché il lavoro del traduttore o dell'interprete si basa su questo. Non è solo la conoscenza della lingua, ma l'uso che ne viene poi esercitato. La lingua dev'essere sviscerata, studiata, ingoiata e digerita, in ogni suo più inutile aspetto. Tutto dev'essere perfetto. Termine per termine.
Precisione. Precisione. Precisione.

E allora lì, in Aula Magna,  penso a questo quando arriva quella simpaticissima ragazza siciliana, che mi vede e mi saluta di sfuggita, con la sua mano scheletrica. E ci penso un'altra volta quando davanti è arriva quella di Padova, che si infila fra le file senza nemmeno dover scorrere di lato. E ancora, quando dopo, durante la lezione, una ragazza per fare una domanda alza il suo esile braccio. E ancora, mentre una bionda con una bella coda da un lato, e si piega sul foglio per scrivere, e allora penso di poterle contare le vertebre che sporgono dalla sua maglietta scollata.

E pensavo a questo, quando mi sono accorta della larghezza dei miei pantaloni, eppure del restante grasso accumulato sulle cosce. E pensavo a questo, quando mi sono accorta di non aver mangiato nulla a pranzo, e mi sono stupita quando mi sono resa conto di non avere nemmeno la minima intenzione di mangiare fino a cena.
Sì, perché non me ne rendevo mica conto tanto bene. Che prima era un "Devo risparmiare, non voglio pesare sui miei. E l'unica cosa sulla quale risparmiare è il cibo. Tesseriamoci al supermercato e cominciamo a fare la spesa intelligente". E in effetti non so dove fossi quando pian piano il costo della spesa settimanale è sceso da 40 a 18 euro. D'altronde non sono malata.

Che comunque io le guardo, tutte loro. Ma proprio tutte. Tutte belle. Che belle che siamo.E io lo so, che è così. Perché quasi tutte le donne hanno complessi sul loro corpo. Per i motivi più disparati, ma nessuna si piace mai completamente. E' inutile prendersi per il culo. E' così. Li percepisco ovunque, i loro imbarazzi. Non c'è bisogno di essere necessariamente malate per avere determinati tipi di complessi. Quindi lo so, che anche le obese appartengono a questo gruppo.
E io ho la sensazione di sentirmi un po' più a casa, un po' più autorizzata.
C'è competizione, c'è stizza, c'è puzza sotto il naso, c'è superbia, c'è zelo.
Ma c'è una sorellanza silenziosa. Una sorellanza che viene dalla disapprovazione più totale di noi stesse. Partendo dal corpo e finendo dalla testa. No, non è solo una questione di cibo. Non è affatto una questione di cibo. Io lo so cos'è. E' una forza inespressa.

Sì, questa è la nostra scuola, non c'è ombra di dubbio. Eppure non credevo.
Non credevo di essere così perfettamente sulla giusta strada da percorrere.

Finisce la lezione, esco dall'Aula Magna.
"Ciao Ari, ti va di venire in bar a prendere qualcosa?"
"Sì, vi faccio compagnia, ma non prendo nulla, fumo un paio di sigarette e basta"
"Eh... Infatti. Anche noi..."

sabato 17 novembre 2012

всего хорошего, ossia: tante belle cose.

Sono tornata. Credo definitivamente, visto che ormai ho una connessione internet stabile e non devo stare lì a contare i minuti sulla chiavetta. E' dura fare la fuorisede. E' bellissimo crearsi la vita.
Quindi.
Cosa faccio, cosa non faccio.
La mia casa è bellissima.
La gente qui si chiede come io faccia a vivere da sola a vent'anni. Loro si sparerebbero e si deprimerebbero. Io benedico la mia fortuna.
Sono malata, fumo tanto, mangio poco, cammino tantissimo. Ho una tosse che mi uccide. Dimagrisco, mi piace, soliti meccanismi, già lo so e già oggi che mi hanno cucinato un piatto di pasta e dei pancakes per cena mi è venuta l'ansia. Ma non fa niente.
L'università va bene. Ancora non ho cominciato con lo studio serio, scopro di non avere poi così tanto tempo per me, ma lo troverò.
Eppure certe volte un istinto naturale mi porta a fare nottata davanti ad alcuni testi giornalistici che voglio assolutamente tradurre. Così, senza motivo. E allora passo ore ed ore lì, e succede che si comincia ad entrare in uno stato confusionale assurdo, nel quale un turbinio di parole viene a soffocarti, e tu non riesci più a ricordare se quell'espressione suoni bene in italiano oppure no. Perdi il senso delle note, il senso del senso del senso del senso, inseguendo idiomi e prestiti. E allora mando a fanculo tutto, giro la pagina del giornale e mi metto a tradurre altro, velocissimamente, a vista, senza nemmeno guardare la tastiera. E poi mi addormento, e il giorno dopo la testa sembra essersi distesa. L'italiano è ancora mio. E allora rileggo e vedo  con altri occhi, correggo, e diventa tutto perfetto. Stampo i miei articoli e li attacco all'angolo della pagina dell'originale. Ho già finito il settimanale "Express", in preda ai miei scatti compulsivi. Ma mi piace. Eccome.

Ho trovato un bel locale. Ormai è diventata la mia tana. Vengono musicisti da ogni parte del mondo, ed io ascolto tutto gratuitamente. Nemmeno prendo da bere. Entro, ascolto e me ne vado. Cerco di andare ad ogni serata, ogni volta che posso. Anche da sola. Esco da lì con un bel sorriso stampato in faccia. La musica guarisce i miei sbalzi d'umore fin troppo frequenti. Per tutta la notte riesco a stare bene, in pace.
Ho le mie solite prove il sabato mattina, comincerò quelle teatrali domenica, e ancora non ho studiato le mie poche battute. Ma non è importante. Mi piace l'atmosfera. Mi piace tutto.

Sono contenta. Ancora non pienamente soddisfatta. Sono ancora in fase d'assestamento. Solo ieri mi sono ritrovata alle prese con la prima lavatrice della mia vita. Capirete anche voi che ne ho di strada da fare.
Mi manca studiare, sapere. Questa sensazione credevo di averla persa per sempre, ormai erano anni che rifiutavo in una maniera un po' borghese a mio parere, che non vi saprei spiegare bene, l'amore per lo studio. Eppure a me piace studiare. Ma ancora non posso farlo come voglio. Lo farò, sì.
E allora sarò contenta.

La vita scorre, io scorro. Non so dove sto andando. So solo che vado lontano. Che ogni giorno mi stacco. Che sono indipendente, e forte. Che non ho paura della solitudine e di tante altre cose per le quali ero intimorita se non terrorizzata, e che queste mie non-paure vengono riconosciute dagli altri, e li attraggono.

Io scorro, come un fiume in piena. Non mi fa male nulla, sono io. Sola di fronte al mondo.
E direi che mi sta andando piuttosto bene.
Sì. E' tutto ancora molto sotto un certo tipo di buon controllo.

martedì 16 ottobre 2012

Un assestamento rivoluzionario ed antisociale.

Scrivo poco, leggo poco. Faccio tanto, ora.
Sempre il solito problema.

Sono i lenti periodi dell'assestamento, della nuova vita.
Sono i periodi delle pubbliche relazioni con gente che non frequenteresti nemmeno morta, gente troppo delicata per le tue vecchie storie di passione e sincerità.
Sono i periodi dei contratti e delle scelte e dei libretti da ritirare.
I periodi dei primi freddi che ti alitano su una nuca ancora troppo fragile.
I tempi del perpetuo movimento, il girovagare alla ricerca di informazioni per le quali proprio non te ne fotte nulla, perché le cose pratiche della vita sono il nulla. In fondo, io qui voglio fare altro.
I tempi dell'indipendenza, ma anche e soprattutto sociale. Sapere di essere diversa, di esserlo sempre stata, un po' alterata, e sentire di non soffrirne più. Il tempo del riconoscimento delle mediocrità altrui, nonostante 'noi' siamo l'élite, 'noi' siamo i prescelti. Nonostante il 'noi' fra me e loro io tengo a concepire un 'io e voi'.
La stagione del rifiuto al compromesso, in ogni sua forma più misera e bieca.

Ecco, per tutte queste cose, ed altre, io ora sono in bilico fra una manciata di inizi sfasati che non riescono a coincidere, né a sfociare in un'unica grande soddisfazione.

Il bello, sul serio... Il bello è che quando prendo in giro la gente e la insulto apertamente questa nemmeno se ne accorge. Ride.

Diventa pericoloso.
Mi sembra tutto concesso.
I miei pari sono sempre inesorabilmente al di sotto di me.

Sì, diventa pericoloso.

sabato 6 ottobre 2012

Un incontro dopo lo stato interessante.



Non sono una persona facile, io. Non sono una persona che rende facili le cose. Tantomeno il comunicare.
Inizialmente ho un entusiasmo che mi spinge a voler conoscere le persone. Dopo un po' l'entusiasmo se ne va, portandosi via il calore della mia postura e dei miei approcci. Divento sempre un po' più fredda. Certe modalità che inizialmente instauro con la gente poi non mi divertono più. Mi irrigidisco. Mi annoio, faccio fatica a seguire discorsi o battute. Diventa faticoso, sì, estramemente faticoso, mantenere certi tipi di amicizia.

Ho un problema di comunicazione soprattutto con i bambini, con i cani e con i matti. Sembra stupido, ma in realtà non lo è. La maggior parte delle persone ha un buon rapporto con le prime due categorie. Studio lingue, eppure questi tre tipi di espressione mi risultano impossibili da decifrare. C'è un muro invalicabile fra me e loro. Un muro fatto di sentimenti che passano attraverso sorrisi, occhi, mani, abbracci, spalle aperte, torace aperto, stomaco aperto. E invece io mi richiudo. Cerco di capire, ma non ci riesco. Ogni volta che mi ci soffermo scorgo i loro occhi sul mio corpo. Perchè anche loro  giocano al mio stesso gioco. Scrutano, e poi giudicano. Così io compio timidamente la prima mossa, e tutto si distrugge.
Io i bambini non li capisco. Io sono una di quelle che quando ha dei bambini nei dintorni e sente un 'Ehi, piccolina', si gira istintivamente. Poi se ne vergogna. I bambini mi fanno paura, per tanti, troppi motivi. Un ultimo si è aggiunto negli ultimi mesi, eppure non è stato determinante. Qualcosa non va, qualcosa non va da tanto tempo.
La figlia di mio cugino è bellissima. Biondina, piccolina, occhi azzurri. Tenera, dolce, un amore. Così dicono. Io non lo vedo. Io non la vedo. E dentro questo non vederla non ci vedo niente. La figlia di mio cugino ha quasi tre anni. Non l'ho mai presa in braccio, non le ho mai parlato. Il vuoto. Una desensibilizzazione asettica. E molte volte in molti casi il puro panico.

C'è stata una cena, settimane fa. A casa di un operatore del Sert. Si chiama Gabriel, è un antropologo e psicologo argentino. Ha una cinquantina d'anni che non dimostra, un paio di anni fa aveva un groviglio rasta lunghissimo. Ora i capelli li ha tagliati, ma conserva il suo orecchino di piume grigie sul suo lobo. Venne a Trieste tanto tempo fa con la sua piccola e graziosa moglie Andrea, perchè Basaglia è Basaglia.
La casa era bella, era triestina. Io sono entrata, ho salutato cordialmente e mi sono diretta istintivamente verso la sala. La sala era spoglia, c'era solo un divano, un paio di piante, una libreria, una poltrona e una tv. Le pareti bianche, candide.

E in quella poltrona vidi dei capelli selvaggi, un corpo rigirato su se stesso, delle gambe, delle braccia, fine piccole, graziose. Quei capelli selvaggi rimanevano immobili, rivelatori di uno sguardo fisso al cartone animato della sera.
Io sono ferma, di fronte a lei. Come al solito irrigidita, non sapevo che fare. Come si salutano le bambine? Bisogna fare 'ciao' con un bel sorrisone, oppure abbracciarle, oppure farle dei complimenti su quanto sono belle? Che si fa, cosa faccio?
Ma lei avvertì qualcosa, forse l'improvvisa assenza dei miei respiri, e lentamente quei fili castano chiaro si muovono. Una testa bassa di quel corpo basso mi guardò dal basso. E, piano, fissandomi, mi sorrise. E quegli angoli della bocca si allargarono fino ad occupare l'intera sala.

Un flash.
"Tea". Ho pensato. "Tea Adacher". La bambina del film La sconosciuta, di Tornatore.

"Ciao, io sono Olivia, tu come ti chiami?"
No, non era lei. Non si assomigliavano nemmeno fisicamente. Eppure avevo la sensazione che quella bambina fosse qualcosa di mio. Perchè in quel momento mi sentivo Irena, la donna in terra straniera, la fredda donna mutilata dal passato che però amava lei e solo lei. Sentivo quella stessa complicità, fra me e lei.
"Oh Tea, finalmente t'ho trovato."

E la mia lingua improvvisamente si sciolse. Il panico dissolto. Sapevo, io sapevo parlare con lei. Conoscevo il modo di comunicare con lei. Come se l'avessi saputo da sempre. Come se i bambini li adorassi, come se fossi un'amichetta o una mamma o una sorella.
Gli altri erano spariti, non c'era più nessuno. Per la prima volta quelli che non vedevo erano loro, i grandi.
"Vuoi essere mia amica?"
"Certo che voglio essere tua amica. Ti va di giocare con me?"
Abbiamo giocato a Mikado, e di lei mi colpì il suo senso del giusto. Non barava mai, e quando io vincevo mi diceva che ero brava, e poi mi consigliava, e poi mi diceva di ritentare anche se non era il mio turno. Di me mi colpì il mio non cercare di sbagliare solo per dovere.
Poi abbiamo ballato senza musica, e di lei mi colpì la sua grazia leggera. Di me mi colpì il mio lasciarmi andare. Io non ballo mai, io non so ballare.
Poi io le ho insegnato i ponti e le verticali e le candele della ginnastica artistica, e di lei mi colpirono le sue limpidi risate, quando le tenevo la sua piccola schiena fra le mani, e le esclamavo di portare le braccia indietro e di seguirle con la testa. Di me mi colpì il mio condividere tecniche e trucchi generosamente.
Poi le ho insegnato milichituli, enzo lorenzo, in un vaso di porcellana, pesce lesso e tutte le filastrocche che si giocano con le mani. Di lei mi colpì il suo interessamento meravigliato. Di me mi colpì il mio divertirmi sui ricordi del passato.
Poi le ho letto delle storie. E di me mi colpì il mio tono fiabesco, i miei stupori, la mia intonazione. Di lei mi colpì la sua testa sul braccio, la sua rilassatezza.

Quando me ne andai mi salutò come un'amichetta.
"Su, Olivia, dai un bacino ad Arianna, fatti abbracciare"
"No, sul serio, va bene così. Vero Olivia? Ci vediamo presto, così giochiamo ancora, ciao ciao", con la mano che si muoveva velocemente.

Ci furono altre giornate con lei. Giornate strane. In giro per le strade. E quandoGabriel le diceva di andare da lui, che bisognava attraversare la strada, lei correva verso di me e si aggrappava alla mia mano. E allora io dimenticavo ancora una volta la grandezza degli spazi intorno a me, e cominciavamo a saltellare per le strade e a canticchiare.
Mi fece delle treccine. "Posso farti le treccine?" "Sì, Olivia".

Andai in un negozio, comprai degli elastici e le fermai tutte. Me le portai fino a Roma. Le tenni per molti giorni, non mi lavai i capelli, erano bruttissime e mi stavano malissimo ma io non volevo scioglierle. Erano portatrici di bei pensieri. Portatrici di buona fortuna.
Solo dopo aver scoperto di essere passata alla SSLMIT le ho sciolte. "Tanto d'ora in poi ci vedremo tante tante volte, mia piccola Tea."

Non so cos'è accaduto. So solo che sono un po' innamorata. Non so se innamorarmi di una bambina di cinque anni sia una conseguenza di ciò che accadde. Non so se è un bene, che me ne sia innamorata, in rapporto a ciò che accadde. Non credo che lei mi abbia liberato dal mio panico. Il resto dei bambini mi rimane indifferente. Solo lei è così. Perchè è lei. Lei ha qualcosa, e questo qualcosa me l'ha regalato. L'ha condiviso con me. Mi ha permesso di provare delle cose, di cercare di capire, per quel tempo che mi ha legato a lei. Una semilibertà. Di pensiero, di linguaggio, di azione. Per la prima volta.

Mi faccio la testa di trecce trecce trecce che mi intrecciano fino a giù, che si dividono in tre e si legano in catene. Mi faccio la testa di trecce trecce trecce, ma dalla metà fino a giù, che almeno metà dei pochi pensieri che ho li lascio ancora un po' liberi. No, ancora non li incateno, in questi intrecci di discorsi cerebrali. Trecce trecce trecce di pensieri. Semiliberi?
 

Eh. Sì. Semiliberi, semiincatenati.

I miei capelli fanno schifo.

giovedì 27 settembre 2012

Cos'è Trieste.


Ecco, mi sono accorta di aver detto di amare Trieste, ma non ho mai specificato come. Che i 'come' sono lunghi.

Trieste non è ciò che vedo, ma la vita che faccio.
La mia, di Trieste, non è fatta di bei palazzi, mare, violini, bar, e parchi e bora.
La mia Trieste inizialmente era quella dei miei zii. Gli stessi che mi stanno ospitando, ora, nella loro casa tipicamente triestina. Lunghe finestre, bel parquet, porte a vetri che qui è sempre tutto buio. La loro casa che è tipicamente mia. Disordinata, accogliente, scassata, vera.

La mia prima Trieste è stata 'Il posto delle fragole'. Un bar nell'ex ospedale psichiatrico, quello di Basaglia, quello delle lotte per i diritti dei 'picchiatelli'. Ora ci dormono i pazienti, c'è un liceo e una facoltà universitaria.  E' tutto immerso in grande parco. E' in alto. Nessun suono della città arriva qui.
Mi ricordo di quando ordinammo un gelato, e vennero a sorriderci i volontari. E poi arrivò una signora, che borbottando qualcosa ci buttò sul tavolo una monetina e si prese la Coca Cola di mia zia senza chiedere nulla. La bevve fino all'ultimo, poi posò il bicchiere, si asciugò la bocca con la manica consumata del suo maglione e si appoggiò al muro di fronte. Quando mia zia le volle ridare i soldi si mise ad urlare talmente forte che dovettero portarla via.
E poi arrivò un vecchio signore. Doveva essere bello, decenni fa. Vestito di tutto punto, non parlava, mi guardò e si portò due dita alle labbra. Il gesto di una sigaretta. Io gli porsi le mie MS bianche di allora. Lui ne prese una, e si prese anche il mio accendino, mentre intanto si sedeva vicino a me. I suoi occhi erano persi, io li vedevo, li vedevo che non c'erano, non erano più lì. Che erano come dei lunghissimi pozzi neri prosciugati dalla malattia. Però, dopo la prima boccata, guardò la sigaretta, poi guardò me, e poi tolse il filtro. Io sorrisi, ne presi un'altra, spezzai anch'io il filtro, e la fumai con lui. Mi sembrava di comunicare con la  cenere e i sospiri. Stette mezz'ora al tavolo, continuando a fumare una sigaretta dopo l'altra, chiedendomene sempre di più e sempre con lo stesso gesto, e io feci altrettanto. Poi spense l'ultima. E io dovevo andare. Ma lui mi toccò il braccio, e cominciò a biascicare qualcosa, incatenandomi ai suoi occhi. Io non capivo, non riuscivo, non potevo sapere. Allora lui si levò la scarpa, mi mostrò il suo calzino grigio toccandosi una caviglia, continuando a borbottare. E io dovevo andare. Cercavo di chiedere, di sapere. Ma io dovevo andare. Lo lasciai lì con quel piede sulla sedia, maledicendomi.
Il giorno dopo tornai alla stessa ora. Solo per lui. Ordinai da bere, rimasi per un po'. Ma lui non arrivò mai. Non lo rividi mai più.
In un silenzio profondo e onirico cominciai a sentire una voce. Degli urli. "Il giudizio universale arriverà, e tutti voi ne sarete investiti con la forza che Dio nostro Signore scatenerà sulla Terra". E io questa voce la seguii. Mi portò ad una piccola chiesa a pochi passi dal bar, ma tutto era già finito. Quando vi entrai dentro mi accorsi che non c'era più nessuno. In quell'esatto momento seppi che quella città sarebbe stata il mio posto, per un po'. Sono passati due anni.

La Trieste di prima mi ha fatto conoscere il famoso scrittore Pino e la pazza Antonella. Lessi tutti i suoi libri, conobbi l'alcolismo, la prigione di lui, di lei conobbi le prime allucinazioni a New York, il tentato suicidio, la reclusione nei manicomi americani e il bipolarismo. Andavo nella loro immensa casa, assistevo a delle prove teatrali. La prima volta piansi, mentre vedevo mio zio fingere d'essere un alcolizzato, mia zia una pazza. A fine prove mi pregarono di suonare. Io suonai, e Pino mi disse "ora fai parte della compagnia instabile. Verrai con noi al nostro prossimo spettacolo". Io tornai a Roma. Poi mi chiamò "Pronta per andare?"
Andammo a Gessopalena, in Abruzzo, e davanti a cinquecento persone condividemmo un'emozione che io non provai mai più.

La Trieste di oggi mi porta al Sert. A Volere Volare, il giornale di strada dei ragazzi con problemi di tossicodipendenza e non. Ascolto le loro storie, i loro scritti. Mi odio per non riuscire a staccare i miei occhi dai loro, a spillo, o dalle loro vene. Io parlo poco, meno del solito, stordita dalle loro genialità stilistiche. E io sarei qui per dare consigli di scrittura? Meglio che prenda appunti.
Meglio che prenda appunti da mio zio, che ha cominciato a scrivere anche lui ed è bravo. Lui non sa che io so, non sa che quando porta una maglietta a maniche corte riconosco il suo passato fatto di sostanza e dolori, in quelle braccia. Non sa che quando mi legge pezzi del suo libro riconosco ogni volta pezzi della sua storia. E ho un sussulto, sempre.
Oggi ad Androna leggevamo degli articoli sul Piacere. Monica è pazza e ha degli occhi giganteschi e tondi. Monica è profondissima. Paragona il suo piacere ad una pentola a pressione. Lei dice di amare le donne e che si sente un uomo. Ma non vuole cambiare sesso. E allora si piega verso di me, stringendo le spalle e serrando le mani in un modo innaturalissimo, e mi sussurra all'orecchio che quando le chiedono il perchè lei risponde che ama troppo Lady Oscar per fargli una carognata del genere. Ride, rido anch'io.

La mia Trieste mi parla di articoli, capitoli. Ma sono articoli e capitoli di vita. E allora sì, che diventa bello scrivere, perchè ogni volta ti sembra di scrivere la tua storia, il tuo destino, i tuoi passi.
La Trieste di domani pomeriggio mi porterà a conoscere due importanti traduttrici. Di quelle che Shakespeare, Beckett e la Woolf sono il loro pane quotidiano. La Trieste di domani mi porterà una piccola traduzione futura, la mia. Uno spettacolo che avrà una piccola voce futura, la mia.

La mia Trieste è ciò che faccio. Ciò che vivo ogni giorno e imparo dalle persone. Cose che non ho mai fatto, nè sentito. Ho il cuore che si apre, in questa città. Lo stomaco, la testa gli occhi. E' tutto aperto, spalancato. Qui c'è tutto quello che mi serve ora. Ora, adesso, io non ho bisogno di altro.

Storie.
Trieste è la mia storia.

sabato 22 settembre 2012

Tutte le strade portano a Roma.


Ieri sera c'è stata una piccola festa in mio onore per la mia partenza. Una scusa per rivederci, dopo mesi.
Lì, il mio amico più divertente. Uno dei tanti che non ha capito un cazzo della vita. Che vuole fare il medico, e che alza gli occhi al cielo quando io lo prendo da parte e con enutsiasmo gli racconto il suo destino secondo le mie visioni. Gli racconto dei suoi studi in una scuola di recitazione qui a Roma, del fatto che un giorno me lo sono immaginato lì, fra il pubblico di Zelig. Ho immaginato che per qualche assurdo motivo l'avrebbero chiamato sul palco, e lui avrebbe intrattenuto la folla investendola di una forza positiva e comica e pura. La stessa che ogni volta ci portava a passare le ricreazioni insieme a lui. Perchè lui era una cura, ci distraeva.
Lui mi chiede perchè odi così Roma. Mi dice che dev'esserci almeno qualcosa di questa città che mi piace. Qualcosa di bello.

Io penso di sì, c'è qualcosa. Ma non è qualcosa di bello. Penso che mi piace Roma di notte. O meglio, guidare a Roma di notte. I miei viaggi dentro la città lunghi metà serbatoio. Di quelli che non sempre hanno una meta. La decadenza, quella patetica e destabilizzante della periferia ad est. Il buio e i suoi palazzi che sono brutti. Veramente brutti. E in quei momenti capisco perchè non ci sia luce. Sento di essermi abituata a quella bruttezza, perchè è casa, in un certo senso. Sento continui rigurgiti di sconforto e mi convinco sempre più che m'abbia fatto bene, la periferia. Che già così io sono troppo morbida. Che probabilemente vivendo al centro sarei stata una persona orrenda, tanto quanto Rebibbia e Montesacro e Pietralata e Talenti e Sempione e Ponte Mammolo. Invece l'orrore adesso ce l'ho solo tutto intorno, e conservo quel piccolo orgoglio tipico di chi vive in borgata. Un orgoglio ignorante che non rivelo mai a nessuno, nemmeno a me stessa, perchè non è mio, è di tutta la gente che trascorre la propria passiva esistenza in queste limitanti distese di cemento e piattume. In macchina mi infilo nei loro vicoli, e mi perdo sempre. Io le strade della mia zona non le conosco.
Ma conservavo comunque quell'orgoglio un po' criminale e malandrino, che a quindici anni mi divertivo ad ostentare al liceo. Che io, il liceo, me lo scelsi al centro. Sì, il vero orgoglio in realtà non c'è, non ce l'ha nessuno, in borgata.
"Qui piove? A Rebibbia no. Rebibbia ha un tempo a parte. Non ci credi? Sfido. Rebibbia è come un paesino, lo vedi, con la sua via principale, lunga e stretta, la sua Chiesa, il suo carcere, le sue case popolari, i suoi bar, le sue palestre, tutto concentrato sulla Casal de' Pazzi. Le nostre comitive, i nostri spacci, i nostri pestaggi ed accoltellamenti, i nostri ladri, tossici, pedofili, i nostri zingari ai quali abbiamo bruciato i loro accampamaenti, e i retaggi della polizia, e gli amici agli arresti domiciliari e gli orari dei pusher e la rivalità con Inacasa e San Basilio. E il nostro clima. Oggi a Rebibbia c'è il sole. No, è inutile che fai quella faccia. Non sono io a prenderti per il culo. E' Rebibbia che prende per il culo Roma intera." Portavo una sigaretta alle labbra, inspiravo, e poi buttavo il fumo in faccia al malcapitato. Poi ridevo amaramente con G.

Vendevamo storie che poi ritrovai in alcuni angoli disperati di Napoli. Storie mirabolanti e catturaorecchie che si raccontano solo quando non è rimasto nient'altro da raccontare, perchè non c'è mai stato nient'altro. Storie che piacciono tantissimo, storie che trasudano tristezza e vuoto. Che la decadenza di quegli angoli si trasmette come un virus alle persone che vi abitano. L'altro giorno passavano 'Una vita violenta' in tv. Un altro moto d'orgoglio irrazionale, nel vedere le mie zone vecchie di cinquant'anni. Nel sapere già che quella storia non finirà bene, perchè si sà che qui la speranza non c'è.

L'altra notte ci sono passata, davanti al mio liceo. Che quando ti infili in via Carlo Alberto, la Basilica di Santa Maria Maggiore ti aggredisce coi suoi pugni di marmo. E quella luce, quella dannata luce artificiale che la rende ancora più maestosa e paurosa. Una calamita, che mi ha portata a girarci intorno, a rollare una sigaretta in via dell'Olmata, appoggiata al portone della scuola, senza mai guardare le mie dita, con lo sguardo verso la chiesa. In quanti modi diversa l'ho vista, per cinque anni. Eppure, in realtà non l'ho mai vista, nelle mie corse, fra i turisti, in mezzo alla pioggia. Nemmeno in quel momento mi pareva di vederla sul serio.
Mi viene voglia di correre, in quei momenti. E così in due minuti imbocco Piazza dei Cinquecento, che ogni tanto viene illuminata di verde o di rosso.E ancora una volta ci passo intorno, e riprendo Via Cavour, piena di ricordi di baci, ripetizioni, e gelati siciliani sparsi nella Suburra, e arrivo al Colosseo. La mia guida del tutto inesperta si fa spericolata e pericolosa. Ci vuole di più, ci vuole qualcosa che faccia ancora più male. Come la Cristoforo Colombo, come via del porto fluviale. Come quel ponte stretto stretto ed industriale e metallico e pieno di buche da percorrere a 30 km/h, e che io non rispetto, perchè non ho il senso della misura, nè della distanza, e mi butto sempre al centro occupando le due corsie, e quando mi vedo arrivare un furgone sterzo violentemente, abbagliata dai suoi fari, sperando di non toccare il marciapiede. Ma non rallento mai.
In quelle notti, se c'è la musica giusta, tutto diventa giusto. Ogni volta che programmo di tornare verso casa uno strano entusiasmo mi pervade. Perchè so che quelle ruote sotto di me troveranno delle soddisfazioni sull'asfalto della Tiburtina. Perchè la Tiburtina è la via più bella da percorrere, quando è notte inoltrata. Perchè la Tiburtina è una delle vie principali di Roma, una di quelle che collega tutto tutto tutto, ma al contrario delle altre conserva ancora una familiarità, una personalità che non si trova facilmente nelle altre, che sembrano concepite e adattate solo per la corsa.
E così il pedale s'abbassa, e io mi godo il gelo del vento. Certe volte non ho voglia di svoltare per la Casal De' Pazzi. Così continuo. Arrivo fino a Villalba. Anche la zona in cui vive mia nonna si affaccia sulla Tiburtina. E' bello, mi piace, mi sembra di vivere in parallelo con lei. Penso che se in linea d'aria percorressi quella distanza in un'unica retta, equidistante dalla grande via romana, mi ritroverei nel suo salone. Quando arrivo lì, sotto casa sua, mi fermo. Ma certe volte nemmeno scendo. Ricomincio quasi subito il mio viaggio per il ritorno, osservando le industrie, i magazzini, le puttane. Eppure non trovo mai una notte abbastanza ispirata, una notte che mi dia il coraggio di fermarmi da loro e parlare.

Questo di Roma mi piace, sì. Ma non del tutto. Nascono ogni volta, in me, sempre le stesse domande. "Come può esserci così poca gente in giro? Come fanno a non accorgersi che è questo il momento da vivere? Possibile che nessuno veda ciò che vedo io?" E allora mi ricordo che ogni città, ogni quartiere, ogni zona, ti mette addosso il suo carattere. E penso che Roma il suo, di carattere non me l'abbia dato, al contrario degli altri. Ancora una volta con Roma, io non sento contatti.

Stanotte, e proprio ora, le mie finestre sono aperte. In uno dei vecchi casali del Parco d'Aguzzano stanno suonando delle tarantelle. Hanno fatto un buon lavoro, con quei casali. Hanno trasformato una vecchia e grande stalla in una biblioteca. Certe volte andavo a studiare lì, immersa nel verde.

Sì, mi piace questa musica. Ma ecco, il bello di Roma sono i suoi ricordi, i ricordi che ti dà. Quei casali occupati dalle famiglie di vecchi amici o da stranieri dell'est, il blitz, lo sgombero da parte della polizia. E via, tutti per strada. E poi le porte e le finestre murate, e poi mesi dopo la disperazione di altri, e altre occupazioni. E le lotte perchè non fossero assegnate al carcere. Eccola, la bellezza, ora. Ma quale cazzo di bellezza? E' un incubo costante. Ogni volta il malessere del quartiere si fa sentire. Come una maledizione, avvolge sempre tutto, anche il fiore più spettacolare.

(Ora stanno suonando Gli anarchici di Leo Ferré. Eh, chiunque non viva qua ci cascherebbe, si lascerebbe abbindolare da questa piccola speranza. Che non ci siano solo spacci e vite violente.)

Sì, mi piace proprio questa musica.
Anche due settimane fa avevano organizzato un piccolo concerto privato. Un folto numero di ragazzi e ragazze si erano raggruppati la notte prima dell'apertura delle scuole. Io ero sveglia, ascoltavo quella musica, mentre scrivevo qualcosa. Alle due di notte cominciarono le urla, gli strilli. Io ho chiuso gli occhi e c'ho fumato una sigaretta, nel buio, sopra a quegli strilli. Rassegnata, proprio come una vera ragazza di borgata, che sa come vanno le cose, lì da lei.
Che tanto lo sapevo, quei ragazzi, i fascisti li stavano massacrando.

Io ci provo, a pensare a ciò che mi piace. Ma, purtroppo, è vero ciò che dice quel proverbio.
Tutte le strade portano a Roma.

Tutte le rassegnazioni portano a Roma.

lunedì 17 settembre 2012

Ssssh.


E' tornato. Dopo anni.
E' stato sempre con me. Per anni.
Mi ha cresciuta, mi ha dato la sua forma abbracciandomi, mi ha baciato. Ha aspirato un soffio dentro di me, non me l'ha più ridato. Quel soffio me l'ha tolto dalla gola, scaldando la laringe, raffreddando i suoi muscoli.
Mi ha mordicchiato le orecchie, rendendomi sorda. Mi ha accarezzato la fronte, azzerando meccanismi e ricordi, instillando della concentrazione.
Ha incrociato le sue mani con le mie, ha trasferito magie dalle sue unghie alle mie. Io grazie a lui, con queste mani ho fatto delle belle cose.

Poi mi ha lasciato. Se n'è andato e mi ha lasciata sola, con le sue benedizioni. Senza foglietti illustrativi. Senza poter leggere quella lista infinita di effetti collaterali.
E allora io rimanevo con lui tutto dentro di me, e nulla di lui tutt'intorno. E non era più come prima, ed era spaventoso.
Non può funzionare così. Non si è pronti a cose del genere.

Ma ora. Ora è diverso. Ora non ho paura di niente. Perchè lo so che non c'è niente da cercare, intorno. Il mondo è una piccola scatola vuota. Quella finta dignità che mascherava orgoglio l'ho buttata via. Probabilmente il suo passaggio negli anni della formazione lasceranno sempre delle orme nel mio modo di parlare ed esprimermi, ma non nel mio modo di volere ed ottenere le cose. Di ottenere lui.

Ho trovato i suoi indirizzi. I posti che frequenta.
E io una notte che mi è parso di sentirlo, l'ho seguito.
Mi sono messa addosso la mia Opel, non ho acceso la radio. Ho abbassato il finestrino, cercando il primo vento freddo di settembre.
E l'ho visto. Come in un flash. Da viale dell'università, salendo verso gli archi di Termini. Quella luce che li irradia, i pioppi a disegnare i confini di una larga distesa di cemento. Era bellissimo. Lo rincorrevo di spalle. Lui si è accorto di me, si è girato, mi ha guardata negli occhi. Una scintilla mi ha trafitto il cuore.

"Tu. Tu sei l'unico in grado di farmi piangere per Roma. Tu sei l'unico dal quale mi lascerò picchiare ed accarezzare sempre. Tu mi hai lasciata. E io ti sto lasciando. Ma io ora, qui, davanti a queste luci, dietro a questo muro di treni, io ti supplico di non abbandonarmi. Vieni con me. Tu lo puoi fare. Sbagliai, e lo sai. Ti ho frainteso in tutti questi anni. Ho provato a maledirti quando ancora eravamo vicini, e tu m'hai fatto male. Me l'hai fatta pagare, e io ho superato tutte le tue prove.
E ora io ti merito. Non importa con chi tu sia. Io sarò sempre la tua amante, io ti dividerò sempre con altri ed altre, ma sarai solo mio. Io sarò tua e di nessun altro."

Lui non pronuncia nulla, come sempre. La sua mano è sulla mia guancia, il suo vento mi sussurra che non litigheremo più. Che verrà a Trieste con me.
Si volta. Scompare dentro ad un angolo di buio.  Scompare in un suono di clacson prolungato. Una macchina dietro di me. Ed io mi ritrovo ferma in mezzo alla strada.
Spingo sull'acceleratore e continuo a cercarlo.

Lo ritrovo dopo ore. In una stanza. Mentre ero sdraiata a letto, mentre ero stanca, perchè la notte non s'era arrestata un attimo. Mi ha parlato in ogni istante, mi ha buttato addosso flussi di parole inconstrastabili.
L'armosfera si inonda di un argento fresco. La finestra si lascia guardare, ma non oltre. Una cornice di un quadro, un quadro dorato. Non c'è profondità. Non c'è un fuori. Fuori non c'è nulla.
La mattina arriva, e la notte smette di parlare all'improvviso. Ma io non me ne accorgo, cullata dall'odore di una pelle. Lui. In quel corpo, in quelle spalle sulle quali poso le mie labbra, in quella schiena dentro la quale nascondo gli occhi. Sulle mie mani avverto dopo tanto tempo quella magia che mi aveva stregata. Un marmo liscio e caldo mi riporta alle nostre mani intrecciate di secoli fa.
Tutto sembra immobile. Mi sembra di essere dentro una goccia di rugiada. La testa è leggera, e dentro di lei lui mi dice che stiamo facendo l'amore, che lui mi rivuole con sè e mi ama come prima, e che anche quando mi farà male, io saprò sopportarlo, perchè ora abbiamo pareggiato i conti, ora non potrò più tradirlo. Ora sono forte come lui. E mi dice che per farsi perdonare si sta lasciando condividere. Quella sorta di amore fermo, immobile, d'atmosfera, lo stiamo facendo in tre.

Il calore di quell'istante. Delle braccia lontane da me, nascoste, che rollano due sigarette. Il rumore di lente dita su una cartina. Il rumore ovattato della lenta lingua sulla colla. Un click infuocato. La carta che si consuma. Una mano che si avvicina alla mia, altre scintille, una sigaretta che è mia. Dei minuti che parevano ore, un mantra fatto di piccoli suoni leggeri e ordinati, nitidi. Una nenia che è in realtà senza suono e senza dolore.
Bacio la sua pelle. Poi mi lascio penetrare dalla prima boccata di quel fumo, l'ennesimo di quella notte, il primo con lui fra di noi.
Altri polmoni si alzano. Si abbassano in contemporanea ai miei.
Poi una voce, che viene da lontano. La mia voce preferita, più della sua.

"...Questo, Arianna... Questo è stato un silenzio. L'hai sentito? "
Sorrido. Scopro gli occhi dalle sue spalle. Ora vedo un corpo in carne ed ossa, una nuca contornata dai suoi lunghi capelli.
Lo so. Me l'ha detto stanotte mentre ti raggiungevo. Me l'ha detto ora, che mi avrebbe perdonata. Che sarebbe tornato. Me l'ha detto, che mi avrebbe regalato qualcosa di sè, con te.

Il mio silenzio. Il mio silenzio sereno, quello che non trovavo più da anni. Quello in grado di rendermi una persona migliore, di farmi concentrare, di farmi amare.

Il silenzio, finalmente è tornato e non mi fa più male. 
Un silenzio che mi accompagnerà in grandi cose, e che sarà le mie più grandi cose mai create.
Ssssshhh.

martedì 11 settembre 2012

E tu tornerai dall'estero, forse tornerai dall'estero.


Non volevo scrivere. Non avrei voluto scrivere fino a domani.
Perchè sono a Roma, sono tornata. Perchè ho fatto i test d'ammissione per la SSLMIT di Trieste. Perchè in quei giorni non ho parlato con nessuno, mi sono chiusa nel silenzio, e in questi ultimi tre giorni successivi avrei dovuto fare altrettanto, perchè il silenzio è buono. Il silenzio mi rende forte, certe volte.
E invece scrivo ora, perchè non ne ho più bisogno. Ora posso esplodere, sputare gridi e scattare in piccoli salti.
Un messaggio è arrivato, così, stamattina, improvvisamente. Una mia amica che mi avverte. La lista degli eletti è già su Internet. E' possibile immaginare il proprio destino un giorno prima di quello che pensavo.

E così l'ho saputo.
L'ho saputo, dopo un fallimento alla stessa facoltà, dopo una depressione, un aborto ed una relazione consumata, dopo che me ne sono andata all'estero, e Parigi in aprile mi ha salvata. Parigi mi ha detto che posso essere serena. E Parigi in luglio mi ha detto che posso essere migliore. Me l'ha data, questa marcia in più.

E così mi sono ritrovata all'inizio di una lista che mi sembrava infinita.

Mi hanno presa. Sono adatta, sono brava.
Mi hanno presa, l'ho saputo stamattina, e sono libera, e felice, e non vedo l'ora di cominciare ciò che sogno da anni.
E sono fiera di me, in queste ore. E penso alla mia personalissima versione del karma. Penso che me lo merito, dopotutto. Senza modestia, che la modestia mi ha fatto ammalare troppe volte.

 Sono fuori di me! Fuori di me!  Ho vinto!

sabato 4 agosto 2012

Un altro utero alterato.

Erano le due di notte.
Tornavo da una serata con K (quello idiota, non il nostro). Rivolevo Il Capitale, che prima o poi lo leggerò e ci capirò qualcosa e Guida al Novecento che è la mia Bibbia dopo il Becherelle. Io gli ho riportato una felpa e il suo merdoso On the road. Ho fatto finta di dimenticarmi il libro di russo del '45 e i suoi vinili di conversazioni russe della zia defunta. Ma tanto non li voleva.
Poi una birra a San Lorenzo. E i suoi soliti progetti pieni di ottimismo, il suo affidarsi a persone che gli faranno favori e che gli risolveranno la vita. Mai che conti sulle sue forze. La noia. Avrei voluto andarmene. E invece ho recitato, come se la sua vita fosse di gran lunga migliore della mia. C'è stato un principio di discussione, ma l'abbiamo soffocata con non poco imbarazzo.
Che persona noiosa, che intellettualoide da quattro soldi, che ego spropositato rispetto alle sue reali capacità.

Ritornavo quindi in macchina, col mio audiolibro di 1Q84 di Murakami Haruki in francese.
Le due di notte, erano, quando mi sono ritrovata a percorrere la via della mia casa.
E improvvisamente due piccoli fari. Due piccoli fari gialli sulla strada, che puntavano verso di me. Ho sterzato disperatamente e pericolosamente, evitandoli. Ho parcheggiato. Sarei voluta tornare a casa. Ma qualcosa mi diceva di tornare lì.
I metri si accorciavano, e pan piano riuscivo a distinguere quella forma. In mezzo alla strada un gatto. Un bel pelo lungo, di un bianco sporcato dalla randagità e dalla vecchiaia. Un mantello perlato. Gli giro intorno, per conoscere il muso. I suoi occhi che poco prima mi stavano investendo.
Lo fisso, mi muovo, e percepisco anche il suo, di movimento.
Questo gatto è vivo.
Sdraiato, sulla strada, sembrava starsene lì, illeso, come quando prendono il sole. Ma qualcosa non andava, no.
Mi avvicino un po' di più, lo guardo meglio. La bocca era un po' aperta, si intravedevano i canini.
E non c'era movimento nei suoi occhi, mi sbagliavo. Degli occhi aperti, fissi sul nulla.
Ho cominciato a guardarli, e più passava il tempo, più qualcosa prendeva possesso di me. La paura.
Quei fari spalancati, che ancora riflettevano la luce su un corpo privo di vita. Gli occhi di un terrore, di chissà quale morte. Ero ipnotizzata, impietrita. Non riuscivo a staccarmene. Lì, in mezzo a quella strada, alle due di notte, avreste visto una ragazza affacciata col suo corpo vivo su quello di uno morto.
Mi dicevo 'fai che si riprenda, fai che sia vivo, fai che si muova, che io sappia che non sia quella la faccia della morte, perchè fa troppa paura'.
Ma non succedeva nulla, e qualcosa dentro di me cresceva.
Poi un click in testa. E ho cominciato a correre verso casa. 'Corri, se non vuoi urlare'.


Io ho una gatta.
Tornata da Parigi mia madre mi ha detto "Forse sta male".
Buffy sta male.
Ha un'endometrite, e anche grave. Lei è attiva, sveglia, come sempre, anche se forse un po' meno. E invece potrebbe morire di setticemia. Ecco cosa cazzo succede a lasciare il proprio animale per un mese ai miei genitori. Ecco cosa succede quando lasci solo un animale che ha soltanto te. Perchè lei odia tutti, tutti tranne me. Lei è una bastarda, ma da poco ho scoperto che possiede del sangue certosino. Lei è il gatto-cane. Mi fa le feste e mi difende da tutti.
Sono tre giorni che la veterinaria viene, e insieme la torturiamo. Ieri le abbiamo fatto uno di quei siringoni per l'antibiotico, quelli dal diametro di 4 o 5 cenimetri, quelli che anch'io avrei paura a farmeli fare. Io la tenevo con i guanti da giardino, perchè ormai non ne può più, ormai ha capito cosa le dobbiamo fare, e fa di tutto per difendersi, e io la amo per questo. Quando il liquido ha cominciato ad entrarle su per la collottola si è disperata. Ha cominciato a divincolarsi come poteva, tanto che ormai non mi sentivo più le dita, e le braccia mi facevano male. Nemmeno tre chili di gatto, e il suo istinto che invece mostra la forza di un uomo.
E poi il suo urlo. Un urlo acuto e soffocato, intenso e disperato. Un urlo che io non credevo fosse capace di fare. Che non le avevo mai sentito fare. Finchè poi non si è arresa alla fatica del dolore, con un lamento continuo, e una zampa sopra al muso. Un'espressione così umana. E a me pareva di violarla, nello stesso momento in cui la stringevo ancora più forte e sibilavo per farla calmare. Il mio era sangue freddo, e l'ho fatto solo per lei.

Quando e se l'infezione guarirà, occorrerà operarla subito. Ed il suo utero le sarà strappato via.

Io ho pensato molto a questa cosa.
Ho pensato a quanto sia stata stupida a non sterelizzarla, semplicemente perchè non volevo metterla sotto i ferri, e invece ora mi ritrovo esattamente allo stesso punto e col doppio dei rischi.
Ho pensato a quegli occhi morti sulla strada, che mi sanno di presagio.
E ho pensato al suo utero e al mio, e mentre lo facevo mi sono ritrovata un sorriso amaro in faccia.

A lei che è un fottuto gatto ma ha il mio carattere, che sono 8 anni che stiamo insieme in questa casa, appiccicate. Che ogni volta che la mattina suonava la sveglia, per non farmi addormentare mi attaccava i piedi e io la volevo uccidere. E che quando ero depressa lei lo sentiva, e me la ritrovavo sempre accanto. E quando piangevo, e lei si avvicinava un po' di più, e mi sfiorava di tanto in tanto. E quando è incazzata e glielo si legge in faccia. E i suoi miagolii quando ritorno da un lungo viaggio, che secondo me  è perchè mi insulta e mi da della stronza. E il suo essere sulle sue con tutti, ma quando la gente piace sul serio anche a me, lei è tranquilla e per un po' di tempo si fa anche accarezzare.
E il mio lasciarla sola per altre due settimane, ora. Domani parto per l'Inghilterra, e lei sarà sola ed ammalata. 

Ora è accovacciata su un angolo del divano, gli occhi vispi, come sempre, ma la stanchezza percepibile. Perchè lei non è mai stata sul divano.

Lei è forte, e non la fottono.
Gli occhi della morte sono diversi dai suoi.
E il suo utero diventerà alterato, un po' come lo è stato il mio.


Il mondo è un posto strano. Certe volte mi sembra che mi dia gli anni a tema, come se fossi ad una continua ed infinita festa in maschera. Ancora non ha capito però che io a queste feste non mi diverto così tanto.