domenica 30 dicembre 2012

Le viaggiatrici.




Il fatto, Julie, è che noi siamo viaggiatrici, ed essere una viaggiatrice significa anche questo. Prendere tante nuove cose e lasciar scivolare via tutto nel passato, e andare avanti, sempre avanti, sempre più lontano. Forse è per questo che sono tanto attaccata alle cose. Non mi piace buttare via nulla. Ho paura che tutto ciò che ho vissuto non sia mai accaduto ma, soprattutto, ho il terrore di dimenticare le cose importanti della mia vita. Certe volte mi hanno risposto che se le cose hanno un vero significato, allora non si scordano mai. Beh, non è vero. A me è accaduto molte volte, ed accetterei di gran lunga la tortura del distacco piuttosto che l’apatia della tabula rasa. Al tempo stesso però, quei ricordi non bastano più. I luoghi e le persone frequentati da sempre sono rassicuranti, ma non ci spingono mai alla stabilità. E allora io, te e tutte le persone come noi, cerchiamo di andare via. Non sappiamo di preciso cosa stiamo rincorrendo, ma lo stiamo facendo con una forza ed una speranza che forse un giorno ci porterà alla rovina.

Il viaggio ci ha illuminato. Il viaggio è la nostra maledizione. Non siamo capaci di pensarci in mezzo ad un luogo e ad un ambiente in  maniera permanente. Io non riesco nemmeno a concepirlo. Io vedo solo fasi e tappe davanti a me. Non c’è mai un posto abbastanza perfetto da spingermi a posare le valigie, a disfare i bagagli e a pianificare una vita. Guardo sempre oltre, guardo sempre al futuro e mai al presente. Non faccio in tempo ad arrivare in un posto e già dentro di me si agita l’impulso di volerlo scavalcare, di voler andare ancora più in là. Cerchiamo qualcosa, non sappiamo cosa. E non c’è mai un luogo in cui possiamo fermarci e dire “ecco, ora è tutto perfetto”. Non c’è mai la completezza. C’è sempre qualcosa che manca, che non ci fa stare intermante bene. L’ultimo pezzetto di un puzzle colorato perso chissà dove, in quali anni, in quali date e in quali traumi.

E’ questo che ci rende delle viaggiatrici. E’ ciò che siamo e saremo sempre. Non delle traduttrici o delle interpreti, né delle hostess di volo, né delle esploratrici o musiciste in tournée o aviatrici. Tutto ciò passa in secondo piano, è solo un adattamento verso la società da parte della nostra vera natura. Del nostro istinto primordiale. E l’essere viaggiatrici comporta imparare sempre, in ogni momento. Conosciamo luoghi e persone. E per quanto riusciamo a creare rapporti veri e sinceri e fenomenali e unici nella loro episodica apparizione, quei momenti grandiosi che solo le avventure ti possono regalare, sappiamo dentro di noi che ciò non durerà, e dovremmo lasciare tutto ancora una volta. Lo stiamo già facendo a Trieste.

Ed è per questo che io e te non potremo mai più tornare a vivere a Roma. Abbiamo compiuto il grande passo, e non possiamo condurre delle vite parallele in due diverse città. No. Roma è stata la nostra casa per anni, lì ci sono i nostri amici, i nostri legami più stretti. Questi rimarranno sempre, ma non saranno mai uguali a com’erano una volta. Mai più. Qualcosa cambia, si sfalda, le vite scorrono, la tua e quella degli altri, e si ramificano e prendono strade opposte. E quegli incontri con i ricordi del passato diventano soltanto degli incroci di diversi mondi. E non sappiamo mai cosa succederà, non sappiamo se quelle persone per le quali eravamo punti di riferimento e che lo erano per noi, cesseranno di essere tali. Se un giorno loro si sveglieranno e penseranno che forse ce ne siamo andate non solo per le opportunità e la curiosità, ma perché anche loro non erano abbastanza per noi. Chissà se un giorno crederanno che le abbiamo tradite. Chissà se ci perdoneranno, loro, che non cambierebbero mai quartiere né lavoro né fidanzati.

Eppure noi continuiamo a viaggiare. E quando torniamo a casa ci accorgiamo che questa non esiste più. E in quell’esatto momento ci rendiamo conto di aver fatto una scelta importantissima, una scelta che gente come noi non potrà mai più rinnegare. Ormai abbiamo dato inizio alla nostra avventura dalla quale non possiamo tornare indietro, e dovremo contare esclusivamente sulle nostre forze. Abbiamo scelto la libertà e l’indipendenza, ed è per questo che la solitudine ci ha scelto. Certe volte nutrendoci, certe volte sbranandoci. Ed è per questo che certe volte tu mi picchi senza sapere il motivo, solo perché hai una grande rabbia dentro, e sai che fra qualche minuto dovrai tornare a casa tua e lasciare la mia, di casa. Perché io non ti inviterò a dormire da me, e tu non me lo chiederesti mai, perché noi siamo indipendenti. Mi picchi ed io ti lascio fare, perché so cosa stai provando. E quando mi hai fatto male ti sei fermata, mi hai abbracciato, dopodichè mi hai chiesto di sedermi sul divano vicino a te, hai preso una mia coperta, ti ci sei rinchiusa dentro ed hai appoggiato la tua testa sulla mia pancia, e mi dicevi “scusa, se vuoi ti faccio i pancakes canadesi che ho imparato a fare nel Québec quando vivevo lì da piccola”, e io intanto ti accarezzavo i capelli e ti dicevo di non preoccuparti. E quei pochi minuti si sono trasformati in ore, insieme. Perché ognuna di noi avrebbe dormito nel proprio letto, perché è la nostra natura. Eppure in certe notti non siamo pronte. Certe volte il nostro essere viaggiatrici sembra una missione pesante e complicata. Un duro macigno che non possiamo mai appoggiare a terra. Mai, nemmeno una volta. Altrimenti cadremmo in pezzi.

Non possiamo fermarci, Julie. Non possiamo pensare ad una storia d’amore a lungo termine, né ad una famiglia. Non possiamo avere amici che vivano con noi il nostro quotidiano, perché noi non abbiamo un quotidiano. Non possiamo nemmeno avere amici come noi, perché quelli come noi prima o poi se ne vanno. Sì, Julie, è vero, noi siamo amiche. E credo che lo saremo per un lungo periodo. Però ci lasceremo, come abbiamo lasciato tutti. La nostra famiglia, le nostre radici, il nostro sangue. Conosceremo e faremo grandi cose, ma non saranno mai legate strette a noi. In ogni stretta di mano i nostri occhi sono già puntati sulla prossima persona alla quale presentarsi. Siamo irrequiete, sì. Abbiamo bisogno di essere sole con noi stesse, ma non ci bastiamo. Per i motivi più diversi. E’ per questo che siamo viaggiatrici. Ed è per questo che io e te, quando torneremo a Roma per le vacanze di Natale, non troveremo nessuno ad accoglierci, sebbene braccia e sorrisi siano lì. Sebbene la città si pieghi davanti a noi. Non c’è più nessun contatto, più nessun legame. Siamo delle profughe, come lo è stata mia madre, come lo è stata la tua. Forse sono state loro a passarci questo gene.
Ma una cosa è certa. Io e te a Roma non ci vedremo.
Io e te siamo destinate ad incontrarci in viaggio.
E ora è tardi. E’ meglio che tu vada a casa. Domani ci organizziamo per andare a Bruxelles, che in Inghilterra ho conosciuto una ragazza che può ospitarci lì.

giovedì 6 dicembre 2012

Flussi di cose. Anemie, sangue, sudori e sogni.


Due spettacoli, sabato. Per la giornata contro l'AIDS.
E' stato bello.

Il primo con attori assolutamente non professionisti. Ed era uno spettacolo divertente. Incomprensibile. "No perché quiero far uno espettiacolo che prende dal teatro arhentino anni '70, la sceneggiatura la facciamo noi", dice l'operatore, arhentino. Ed è venuto fuori qualcosa di assurdo e comico e triste. Così ho aperto le danze con Очи чёрные. E poi Bang bang. Finché la chitarra non si è scordata per il calore delle luci, e a Mercedes Benz avrei voluto lanciarla addosso al pubblico. Ma mi hanno detto che non si è sentito molto. Ma io mi ero incazzata.
E poi quello più serio. Quello in cui avrei dovuto recitare. Mafalda da giovane, una piccola sciacquetta. "Una volta gli uomini mi cercavano l'anima in mezzo alle gambe, il cuore dentro il reggiseno, la voce dentro le labbra". E poi una punk rannicchiata a terra che non riusciva a cantare, perché nessuno l'ha mai voluta ascoltare sul serio.

Beh. Sulla qualità delle prestazioni non posso dire nulla. Ma, rispetto a due anni fa, la voce non tremava. La mia voce non trema più, no.

Il primo spettacolo parlava dell'assenza. Parlava di un puzzle al quale manca un pezzo. L'imperfezione umana. Alla fine ci sarebbe dovuta essere una scena nella quale un passante trovava a terra un pezzo di puzzle, lo guardava, e lo buttava via. Ma è stata tagliata. No, poi è troppo ciclico, lasciamo l'imperfezione.

Fu incredibile quando, fra i due spettacoli, un attore togliendosi le scarpe, vi trovò dentro un pezzo di puzzle, probabilmente appartenente alle sue due figlie.
Ma era lì. Ed era un segno. I soliti segni che mi vengono a cercare. E allora la voce non ha tremato, allora sapevo che sarebbe andato tutto molto bene. E così è stato.

E ora c'è il vuoto. Perché i sabato mattina mi divertivo ad andare fin lì e a parlare e provare.

Hanno pubblicato un mio articolo. Sul giornale di strada del quale parlavo.

E domani comincerò a "lavorare" (perché ovviamente non mi danno nulla, essendo un'altra organizzazione di volontari) nella mia tana preferita. Quella nella quale mi infilo la notte a sentire musica. Sbiglietterò e farò la buttafuori. Mi piace tantissimo questa cosa.

Sì, solo fatti. Racconto fatti ultimamente. E' bello raccontare i fatti. Sono noiosi da leggere, ma mi piace sapere di averli.
Mentre in questo paio di giorni sto morendo dissanguata. Un'esperienza extrasensoriale, ve l'assicuro. Un'anemia storica, che non so da cosa dipenda. Non riesco ad andare a lezione. Dormo. Tantissimo. Ieri sono stata sveglia solo per 5 ore, e poi via, con le mie 12 ore di sonno alle spalle, e altre 9 ore successive. Provo un piacere unico nello sprofondare fra le coperte. Tanto da accucciarmi e cullarmi un po', da sola. Sogno tanto. Sogno cose strane alle quali non so dare un'emozione.
Sogno la bambina, figlia dell'operatore della quale mi sono innamorata. Sogno di avere uno sgabuzzino in più a casa. Sogno una pomiciata lesbica con una ragazza conservatrice canadese con la quale ho legato qui, e con la quale abbiamo parlato di omosessualità. E allora io me lo sono chiesta come sarebbe, se ci riuscirei. Se l'omosessualità vienga dalla genetica o è solo un fatto culturale. Perché altrimenti potrei esserlo anch'io. Potremmo esserlo tutti. Pensavo che l'unico modo fosse quello di sognare. Così ho sperimentato, a modo mio, come faccio sempre. Condizionandomi. C'ho pensato intensamente per l'intera settimana, anche prima di addormentarmi, e finalmente il sogno è uscito fuori. E... Nulla, non mi piaceva. C'avevo quelle due tettone lì davanti a me e non vedevo altro che carne, semplice, pulita, pura. Quindi, ora che l'ho provato, lo so.

Ho una sensazione di irrisolto, probabilmente dettata da una mia passività.

Cos'è che voglio fare veramente? Cos'è che voglio essere?
Ho una volontà?

Mi sforzerò di sognare anche questo.

giovedì 29 novembre 2012

Sorellanze silenziose.


Corro per le strade di Trieste. La borsa continua a scivolarmi dalla spalla, sudo tanto, il fiato si fa corto, eppure stringo fra le dita la mia sigaretta rollata alcuni minuti fa a casa. Ogni tanto aspiro.
Sono in ritardo, come sempre. Lancio il mozzicone dentro al posacenere, stranamente lo centro. Apro la porta, mi ricompongo, mi infilo nell'Aula Magna. La professoressa ancora non è arrivata. Le poche persone che mi piacciono sono assenti o a file e file di distanza. Così mi scelgo un posto appartato. Tiro su le gambe. Accendo il computer. E mi guardo intorno.

La mia facoltà, ma forse è meglio dire scuola, è stata sempre spiccatamente femminile. Me lo ripeteva la mia vecchia professoressa di inglese del liceo, che lei c'era stata, quarant'anni fa, me lo ripeto anch'io, che ci sono, ora.
E succedono delle cose strane, quand'è così. Quando ci sono femmine femmine femmine. Dappertutto. E' come se l'aria cambiasse il suo odore, se l'atmosfera mutasse la sua leggerezza. Non saprei dire in che modo, di preciso. Ma tutto cambia. La sensazione di essere fra sole donne immerge nella calma, nella tranquillità. Sempre e comunque. Nonostante le antipatie e la competitività snervante di molte di noi.
Perché in mezzo al silenzio pacifico, se proprio dev'esserci una nota violenta, questa sarà passiva. Sì, una violenza passiva. Un ambiente fiorito di belle teste produttive. Sì, guardavo tutte quelle teste. Sarà una raccolta fruttuosa un giorno.
Mi guardo intorno, ammiro i loro capelli lunghi e ben pettinati, e so che dentro le loro belle teste c'è anche qualcosa che le corrode.
Altrimenti non si spiegherebbe per quale motivo siano tutte così inconfondibilmente magre. Siamo 160. Leviamo una 15ina di ragazzi. 145. Leviamo le due obese. 143. Leviamo le normopeso. 113.
113 ragazze magre magre magre. Alcune con i segni visibili dell'anoressia, rare. Altre con dei geni fortunati. Altre semplicemente in bilico. Esageratamente attente, ma non malate.
Già.
Quando si ha a che fare con una lingua ci si diverte molto. Esistono milioni di modi per approcciarla, e quindi puoi scegliere di studiare in maniera molto libera. Forse troppo libera. Perché se non si ha la forza di volontà necessaria si rischia di perdersi un po'. Bisogna possedere tenacia. Ma soprattutto, in questa scuola, bisogna possedere  una spiccata inclinazione verso manie perfezionistiche.
Perché il lavoro del traduttore o dell'interprete si basa su questo. Non è solo la conoscenza della lingua, ma l'uso che ne viene poi esercitato. La lingua dev'essere sviscerata, studiata, ingoiata e digerita, in ogni suo più inutile aspetto. Tutto dev'essere perfetto. Termine per termine.
Precisione. Precisione. Precisione.

E allora lì, in Aula Magna,  penso a questo quando arriva quella simpaticissima ragazza siciliana, che mi vede e mi saluta di sfuggita, con la sua mano scheletrica. E ci penso un'altra volta quando davanti è arriva quella di Padova, che si infila fra le file senza nemmeno dover scorrere di lato. E ancora, quando dopo, durante la lezione, una ragazza per fare una domanda alza il suo esile braccio. E ancora, mentre una bionda con una bella coda da un lato, e si piega sul foglio per scrivere, e allora penso di poterle contare le vertebre che sporgono dalla sua maglietta scollata.

E pensavo a questo, quando mi sono accorta della larghezza dei miei pantaloni, eppure del restante grasso accumulato sulle cosce. E pensavo a questo, quando mi sono accorta di non aver mangiato nulla a pranzo, e mi sono stupita quando mi sono resa conto di non avere nemmeno la minima intenzione di mangiare fino a cena.
Sì, perché non me ne rendevo mica conto tanto bene. Che prima era un "Devo risparmiare, non voglio pesare sui miei. E l'unica cosa sulla quale risparmiare è il cibo. Tesseriamoci al supermercato e cominciamo a fare la spesa intelligente". E in effetti non so dove fossi quando pian piano il costo della spesa settimanale è sceso da 40 a 18 euro. D'altronde non sono malata.

Che comunque io le guardo, tutte loro. Ma proprio tutte. Tutte belle. Che belle che siamo.E io lo so, che è così. Perché quasi tutte le donne hanno complessi sul loro corpo. Per i motivi più disparati, ma nessuna si piace mai completamente. E' inutile prendersi per il culo. E' così. Li percepisco ovunque, i loro imbarazzi. Non c'è bisogno di essere necessariamente malate per avere determinati tipi di complessi. Quindi lo so, che anche le obese appartengono a questo gruppo.
E io ho la sensazione di sentirmi un po' più a casa, un po' più autorizzata.
C'è competizione, c'è stizza, c'è puzza sotto il naso, c'è superbia, c'è zelo.
Ma c'è una sorellanza silenziosa. Una sorellanza che viene dalla disapprovazione più totale di noi stesse. Partendo dal corpo e finendo dalla testa. No, non è solo una questione di cibo. Non è affatto una questione di cibo. Io lo so cos'è. E' una forza inespressa.

Sì, questa è la nostra scuola, non c'è ombra di dubbio. Eppure non credevo.
Non credevo di essere così perfettamente sulla giusta strada da percorrere.

Finisce la lezione, esco dall'Aula Magna.
"Ciao Ari, ti va di venire in bar a prendere qualcosa?"
"Sì, vi faccio compagnia, ma non prendo nulla, fumo un paio di sigarette e basta"
"Eh... Infatti. Anche noi..."

sabato 17 novembre 2012

всего хорошего, ossia: tante belle cose.

Sono tornata. Credo definitivamente, visto che ormai ho una connessione internet stabile e non devo stare lì a contare i minuti sulla chiavetta. E' dura fare la fuorisede. E' bellissimo crearsi la vita.
Quindi.
Cosa faccio, cosa non faccio.
La mia casa è bellissima.
La gente qui si chiede come io faccia a vivere da sola a vent'anni. Loro si sparerebbero e si deprimerebbero. Io benedico la mia fortuna.
Sono malata, fumo tanto, mangio poco, cammino tantissimo. Ho una tosse che mi uccide. Dimagrisco, mi piace, soliti meccanismi, già lo so e già oggi che mi hanno cucinato un piatto di pasta e dei pancakes per cena mi è venuta l'ansia. Ma non fa niente.
L'università va bene. Ancora non ho cominciato con lo studio serio, scopro di non avere poi così tanto tempo per me, ma lo troverò.
Eppure certe volte un istinto naturale mi porta a fare nottata davanti ad alcuni testi giornalistici che voglio assolutamente tradurre. Così, senza motivo. E allora passo ore ed ore lì, e succede che si comincia ad entrare in uno stato confusionale assurdo, nel quale un turbinio di parole viene a soffocarti, e tu non riesci più a ricordare se quell'espressione suoni bene in italiano oppure no. Perdi il senso delle note, il senso del senso del senso del senso, inseguendo idiomi e prestiti. E allora mando a fanculo tutto, giro la pagina del giornale e mi metto a tradurre altro, velocissimamente, a vista, senza nemmeno guardare la tastiera. E poi mi addormento, e il giorno dopo la testa sembra essersi distesa. L'italiano è ancora mio. E allora rileggo e vedo  con altri occhi, correggo, e diventa tutto perfetto. Stampo i miei articoli e li attacco all'angolo della pagina dell'originale. Ho già finito il settimanale "Express", in preda ai miei scatti compulsivi. Ma mi piace. Eccome.

Ho trovato un bel locale. Ormai è diventata la mia tana. Vengono musicisti da ogni parte del mondo, ed io ascolto tutto gratuitamente. Nemmeno prendo da bere. Entro, ascolto e me ne vado. Cerco di andare ad ogni serata, ogni volta che posso. Anche da sola. Esco da lì con un bel sorriso stampato in faccia. La musica guarisce i miei sbalzi d'umore fin troppo frequenti. Per tutta la notte riesco a stare bene, in pace.
Ho le mie solite prove il sabato mattina, comincerò quelle teatrali domenica, e ancora non ho studiato le mie poche battute. Ma non è importante. Mi piace l'atmosfera. Mi piace tutto.

Sono contenta. Ancora non pienamente soddisfatta. Sono ancora in fase d'assestamento. Solo ieri mi sono ritrovata alle prese con la prima lavatrice della mia vita. Capirete anche voi che ne ho di strada da fare.
Mi manca studiare, sapere. Questa sensazione credevo di averla persa per sempre, ormai erano anni che rifiutavo in una maniera un po' borghese a mio parere, che non vi saprei spiegare bene, l'amore per lo studio. Eppure a me piace studiare. Ma ancora non posso farlo come voglio. Lo farò, sì.
E allora sarò contenta.

La vita scorre, io scorro. Non so dove sto andando. So solo che vado lontano. Che ogni giorno mi stacco. Che sono indipendente, e forte. Che non ho paura della solitudine e di tante altre cose per le quali ero intimorita se non terrorizzata, e che queste mie non-paure vengono riconosciute dagli altri, e li attraggono.

Io scorro, come un fiume in piena. Non mi fa male nulla, sono io. Sola di fronte al mondo.
E direi che mi sta andando piuttosto bene.
Sì. E' tutto ancora molto sotto un certo tipo di buon controllo.

martedì 16 ottobre 2012

Un assestamento rivoluzionario ed antisociale.

Scrivo poco, leggo poco. Faccio tanto, ora.
Sempre il solito problema.

Sono i lenti periodi dell'assestamento, della nuova vita.
Sono i periodi delle pubbliche relazioni con gente che non frequenteresti nemmeno morta, gente troppo delicata per le tue vecchie storie di passione e sincerità.
Sono i periodi dei contratti e delle scelte e dei libretti da ritirare.
I periodi dei primi freddi che ti alitano su una nuca ancora troppo fragile.
I tempi del perpetuo movimento, il girovagare alla ricerca di informazioni per le quali proprio non te ne fotte nulla, perché le cose pratiche della vita sono il nulla. In fondo, io qui voglio fare altro.
I tempi dell'indipendenza, ma anche e soprattutto sociale. Sapere di essere diversa, di esserlo sempre stata, un po' alterata, e sentire di non soffrirne più. Il tempo del riconoscimento delle mediocrità altrui, nonostante 'noi' siamo l'élite, 'noi' siamo i prescelti. Nonostante il 'noi' fra me e loro io tengo a concepire un 'io e voi'.
La stagione del rifiuto al compromesso, in ogni sua forma più misera e bieca.

Ecco, per tutte queste cose, ed altre, io ora sono in bilico fra una manciata di inizi sfasati che non riescono a coincidere, né a sfociare in un'unica grande soddisfazione.

Il bello, sul serio... Il bello è che quando prendo in giro la gente e la insulto apertamente questa nemmeno se ne accorge. Ride.

Diventa pericoloso.
Mi sembra tutto concesso.
I miei pari sono sempre inesorabilmente al di sotto di me.

Sì, diventa pericoloso.

sabato 6 ottobre 2012

Un incontro dopo lo stato interessante.



Non sono una persona facile, io. Non sono una persona che rende facili le cose. Tantomeno il comunicare.
Inizialmente ho un entusiasmo che mi spinge a voler conoscere le persone. Dopo un po' l'entusiasmo se ne va, portandosi via il calore della mia postura e dei miei approcci. Divento sempre un po' più fredda. Certe modalità che inizialmente instauro con la gente poi non mi divertono più. Mi irrigidisco. Mi annoio, faccio fatica a seguire discorsi o battute. Diventa faticoso, sì, estramemente faticoso, mantenere certi tipi di amicizia.

Ho un problema di comunicazione soprattutto con i bambini, con i cani e con i matti. Sembra stupido, ma in realtà non lo è. La maggior parte delle persone ha un buon rapporto con le prime due categorie. Studio lingue, eppure questi tre tipi di espressione mi risultano impossibili da decifrare. C'è un muro invalicabile fra me e loro. Un muro fatto di sentimenti che passano attraverso sorrisi, occhi, mani, abbracci, spalle aperte, torace aperto, stomaco aperto. E invece io mi richiudo. Cerco di capire, ma non ci riesco. Ogni volta che mi ci soffermo scorgo i loro occhi sul mio corpo. Perchè anche loro  giocano al mio stesso gioco. Scrutano, e poi giudicano. Così io compio timidamente la prima mossa, e tutto si distrugge.
Io i bambini non li capisco. Io sono una di quelle che quando ha dei bambini nei dintorni e sente un 'Ehi, piccolina', si gira istintivamente. Poi se ne vergogna. I bambini mi fanno paura, per tanti, troppi motivi. Un ultimo si è aggiunto negli ultimi mesi, eppure non è stato determinante. Qualcosa non va, qualcosa non va da tanto tempo.
La figlia di mio cugino è bellissima. Biondina, piccolina, occhi azzurri. Tenera, dolce, un amore. Così dicono. Io non lo vedo. Io non la vedo. E dentro questo non vederla non ci vedo niente. La figlia di mio cugino ha quasi tre anni. Non l'ho mai presa in braccio, non le ho mai parlato. Il vuoto. Una desensibilizzazione asettica. E molte volte in molti casi il puro panico.

C'è stata una cena, settimane fa. A casa di un operatore del Sert. Si chiama Gabriel, è un antropologo e psicologo argentino. Ha una cinquantina d'anni che non dimostra, un paio di anni fa aveva un groviglio rasta lunghissimo. Ora i capelli li ha tagliati, ma conserva il suo orecchino di piume grigie sul suo lobo. Venne a Trieste tanto tempo fa con la sua piccola e graziosa moglie Andrea, perchè Basaglia è Basaglia.
La casa era bella, era triestina. Io sono entrata, ho salutato cordialmente e mi sono diretta istintivamente verso la sala. La sala era spoglia, c'era solo un divano, un paio di piante, una libreria, una poltrona e una tv. Le pareti bianche, candide.

E in quella poltrona vidi dei capelli selvaggi, un corpo rigirato su se stesso, delle gambe, delle braccia, fine piccole, graziose. Quei capelli selvaggi rimanevano immobili, rivelatori di uno sguardo fisso al cartone animato della sera.
Io sono ferma, di fronte a lei. Come al solito irrigidita, non sapevo che fare. Come si salutano le bambine? Bisogna fare 'ciao' con un bel sorrisone, oppure abbracciarle, oppure farle dei complimenti su quanto sono belle? Che si fa, cosa faccio?
Ma lei avvertì qualcosa, forse l'improvvisa assenza dei miei respiri, e lentamente quei fili castano chiaro si muovono. Una testa bassa di quel corpo basso mi guardò dal basso. E, piano, fissandomi, mi sorrise. E quegli angoli della bocca si allargarono fino ad occupare l'intera sala.

Un flash.
"Tea". Ho pensato. "Tea Adacher". La bambina del film La sconosciuta, di Tornatore.

"Ciao, io sono Olivia, tu come ti chiami?"
No, non era lei. Non si assomigliavano nemmeno fisicamente. Eppure avevo la sensazione che quella bambina fosse qualcosa di mio. Perchè in quel momento mi sentivo Irena, la donna in terra straniera, la fredda donna mutilata dal passato che però amava lei e solo lei. Sentivo quella stessa complicità, fra me e lei.
"Oh Tea, finalmente t'ho trovato."

E la mia lingua improvvisamente si sciolse. Il panico dissolto. Sapevo, io sapevo parlare con lei. Conoscevo il modo di comunicare con lei. Come se l'avessi saputo da sempre. Come se i bambini li adorassi, come se fossi un'amichetta o una mamma o una sorella.
Gli altri erano spariti, non c'era più nessuno. Per la prima volta quelli che non vedevo erano loro, i grandi.
"Vuoi essere mia amica?"
"Certo che voglio essere tua amica. Ti va di giocare con me?"
Abbiamo giocato a Mikado, e di lei mi colpì il suo senso del giusto. Non barava mai, e quando io vincevo mi diceva che ero brava, e poi mi consigliava, e poi mi diceva di ritentare anche se non era il mio turno. Di me mi colpì il mio non cercare di sbagliare solo per dovere.
Poi abbiamo ballato senza musica, e di lei mi colpì la sua grazia leggera. Di me mi colpì il mio lasciarmi andare. Io non ballo mai, io non so ballare.
Poi io le ho insegnato i ponti e le verticali e le candele della ginnastica artistica, e di lei mi colpirono le sue limpidi risate, quando le tenevo la sua piccola schiena fra le mani, e le esclamavo di portare le braccia indietro e di seguirle con la testa. Di me mi colpì il mio condividere tecniche e trucchi generosamente.
Poi le ho insegnato milichituli, enzo lorenzo, in un vaso di porcellana, pesce lesso e tutte le filastrocche che si giocano con le mani. Di lei mi colpì il suo interessamento meravigliato. Di me mi colpì il mio divertirmi sui ricordi del passato.
Poi le ho letto delle storie. E di me mi colpì il mio tono fiabesco, i miei stupori, la mia intonazione. Di lei mi colpì la sua testa sul braccio, la sua rilassatezza.

Quando me ne andai mi salutò come un'amichetta.
"Su, Olivia, dai un bacino ad Arianna, fatti abbracciare"
"No, sul serio, va bene così. Vero Olivia? Ci vediamo presto, così giochiamo ancora, ciao ciao", con la mano che si muoveva velocemente.

Ci furono altre giornate con lei. Giornate strane. In giro per le strade. E quandoGabriel le diceva di andare da lui, che bisognava attraversare la strada, lei correva verso di me e si aggrappava alla mia mano. E allora io dimenticavo ancora una volta la grandezza degli spazi intorno a me, e cominciavamo a saltellare per le strade e a canticchiare.
Mi fece delle treccine. "Posso farti le treccine?" "Sì, Olivia".

Andai in un negozio, comprai degli elastici e le fermai tutte. Me le portai fino a Roma. Le tenni per molti giorni, non mi lavai i capelli, erano bruttissime e mi stavano malissimo ma io non volevo scioglierle. Erano portatrici di bei pensieri. Portatrici di buona fortuna.
Solo dopo aver scoperto di essere passata alla SSLMIT le ho sciolte. "Tanto d'ora in poi ci vedremo tante tante volte, mia piccola Tea."

Non so cos'è accaduto. So solo che sono un po' innamorata. Non so se innamorarmi di una bambina di cinque anni sia una conseguenza di ciò che accadde. Non so se è un bene, che me ne sia innamorata, in rapporto a ciò che accadde. Non credo che lei mi abbia liberato dal mio panico. Il resto dei bambini mi rimane indifferente. Solo lei è così. Perchè è lei. Lei ha qualcosa, e questo qualcosa me l'ha regalato. L'ha condiviso con me. Mi ha permesso di provare delle cose, di cercare di capire, per quel tempo che mi ha legato a lei. Una semilibertà. Di pensiero, di linguaggio, di azione. Per la prima volta.

Mi faccio la testa di trecce trecce trecce che mi intrecciano fino a giù, che si dividono in tre e si legano in catene. Mi faccio la testa di trecce trecce trecce, ma dalla metà fino a giù, che almeno metà dei pochi pensieri che ho li lascio ancora un po' liberi. No, ancora non li incateno, in questi intrecci di discorsi cerebrali. Trecce trecce trecce di pensieri. Semiliberi?
 

Eh. Sì. Semiliberi, semiincatenati.

I miei capelli fanno schifo.

giovedì 27 settembre 2012

Cos'è Trieste.


Ecco, mi sono accorta di aver detto di amare Trieste, ma non ho mai specificato come. Che i 'come' sono lunghi.

Trieste non è ciò che vedo, ma la vita che faccio.
La mia, di Trieste, non è fatta di bei palazzi, mare, violini, bar, e parchi e bora.
La mia Trieste inizialmente era quella dei miei zii. Gli stessi che mi stanno ospitando, ora, nella loro casa tipicamente triestina. Lunghe finestre, bel parquet, porte a vetri che qui è sempre tutto buio. La loro casa che è tipicamente mia. Disordinata, accogliente, scassata, vera.

La mia prima Trieste è stata 'Il posto delle fragole'. Un bar nell'ex ospedale psichiatrico, quello di Basaglia, quello delle lotte per i diritti dei 'picchiatelli'. Ora ci dormono i pazienti, c'è un liceo e una facoltà universitaria.  E' tutto immerso in grande parco. E' in alto. Nessun suono della città arriva qui.
Mi ricordo di quando ordinammo un gelato, e vennero a sorriderci i volontari. E poi arrivò una signora, che borbottando qualcosa ci buttò sul tavolo una monetina e si prese la Coca Cola di mia zia senza chiedere nulla. La bevve fino all'ultimo, poi posò il bicchiere, si asciugò la bocca con la manica consumata del suo maglione e si appoggiò al muro di fronte. Quando mia zia le volle ridare i soldi si mise ad urlare talmente forte che dovettero portarla via.
E poi arrivò un vecchio signore. Doveva essere bello, decenni fa. Vestito di tutto punto, non parlava, mi guardò e si portò due dita alle labbra. Il gesto di una sigaretta. Io gli porsi le mie MS bianche di allora. Lui ne prese una, e si prese anche il mio accendino, mentre intanto si sedeva vicino a me. I suoi occhi erano persi, io li vedevo, li vedevo che non c'erano, non erano più lì. Che erano come dei lunghissimi pozzi neri prosciugati dalla malattia. Però, dopo la prima boccata, guardò la sigaretta, poi guardò me, e poi tolse il filtro. Io sorrisi, ne presi un'altra, spezzai anch'io il filtro, e la fumai con lui. Mi sembrava di comunicare con la  cenere e i sospiri. Stette mezz'ora al tavolo, continuando a fumare una sigaretta dopo l'altra, chiedendomene sempre di più e sempre con lo stesso gesto, e io feci altrettanto. Poi spense l'ultima. E io dovevo andare. Ma lui mi toccò il braccio, e cominciò a biascicare qualcosa, incatenandomi ai suoi occhi. Io non capivo, non riuscivo, non potevo sapere. Allora lui si levò la scarpa, mi mostrò il suo calzino grigio toccandosi una caviglia, continuando a borbottare. E io dovevo andare. Cercavo di chiedere, di sapere. Ma io dovevo andare. Lo lasciai lì con quel piede sulla sedia, maledicendomi.
Il giorno dopo tornai alla stessa ora. Solo per lui. Ordinai da bere, rimasi per un po'. Ma lui non arrivò mai. Non lo rividi mai più.
In un silenzio profondo e onirico cominciai a sentire una voce. Degli urli. "Il giudizio universale arriverà, e tutti voi ne sarete investiti con la forza che Dio nostro Signore scatenerà sulla Terra". E io questa voce la seguii. Mi portò ad una piccola chiesa a pochi passi dal bar, ma tutto era già finito. Quando vi entrai dentro mi accorsi che non c'era più nessuno. In quell'esatto momento seppi che quella città sarebbe stata il mio posto, per un po'. Sono passati due anni.

La Trieste di prima mi ha fatto conoscere il famoso scrittore Pino e la pazza Antonella. Lessi tutti i suoi libri, conobbi l'alcolismo, la prigione di lui, di lei conobbi le prime allucinazioni a New York, il tentato suicidio, la reclusione nei manicomi americani e il bipolarismo. Andavo nella loro immensa casa, assistevo a delle prove teatrali. La prima volta piansi, mentre vedevo mio zio fingere d'essere un alcolizzato, mia zia una pazza. A fine prove mi pregarono di suonare. Io suonai, e Pino mi disse "ora fai parte della compagnia instabile. Verrai con noi al nostro prossimo spettacolo". Io tornai a Roma. Poi mi chiamò "Pronta per andare?"
Andammo a Gessopalena, in Abruzzo, e davanti a cinquecento persone condividemmo un'emozione che io non provai mai più.

La Trieste di oggi mi porta al Sert. A Volere Volare, il giornale di strada dei ragazzi con problemi di tossicodipendenza e non. Ascolto le loro storie, i loro scritti. Mi odio per non riuscire a staccare i miei occhi dai loro, a spillo, o dalle loro vene. Io parlo poco, meno del solito, stordita dalle loro genialità stilistiche. E io sarei qui per dare consigli di scrittura? Meglio che prenda appunti.
Meglio che prenda appunti da mio zio, che ha cominciato a scrivere anche lui ed è bravo. Lui non sa che io so, non sa che quando porta una maglietta a maniche corte riconosco il suo passato fatto di sostanza e dolori, in quelle braccia. Non sa che quando mi legge pezzi del suo libro riconosco ogni volta pezzi della sua storia. E ho un sussulto, sempre.
Oggi ad Androna leggevamo degli articoli sul Piacere. Monica è pazza e ha degli occhi giganteschi e tondi. Monica è profondissima. Paragona il suo piacere ad una pentola a pressione. Lei dice di amare le donne e che si sente un uomo. Ma non vuole cambiare sesso. E allora si piega verso di me, stringendo le spalle e serrando le mani in un modo innaturalissimo, e mi sussurra all'orecchio che quando le chiedono il perchè lei risponde che ama troppo Lady Oscar per fargli una carognata del genere. Ride, rido anch'io.

La mia Trieste mi parla di articoli, capitoli. Ma sono articoli e capitoli di vita. E allora sì, che diventa bello scrivere, perchè ogni volta ti sembra di scrivere la tua storia, il tuo destino, i tuoi passi.
La Trieste di domani pomeriggio mi porterà a conoscere due importanti traduttrici. Di quelle che Shakespeare, Beckett e la Woolf sono il loro pane quotidiano. La Trieste di domani mi porterà una piccola traduzione futura, la mia. Uno spettacolo che avrà una piccola voce futura, la mia.

La mia Trieste è ciò che faccio. Ciò che vivo ogni giorno e imparo dalle persone. Cose che non ho mai fatto, nè sentito. Ho il cuore che si apre, in questa città. Lo stomaco, la testa gli occhi. E' tutto aperto, spalancato. Qui c'è tutto quello che mi serve ora. Ora, adesso, io non ho bisogno di altro.

Storie.
Trieste è la mia storia.

sabato 22 settembre 2012

Tutte le strade portano a Roma.


Ieri sera c'è stata una piccola festa in mio onore per la mia partenza. Una scusa per rivederci, dopo mesi.
Lì, il mio amico più divertente. Uno dei tanti che non ha capito un cazzo della vita. Che vuole fare il medico, e che alza gli occhi al cielo quando io lo prendo da parte e con enutsiasmo gli racconto il suo destino secondo le mie visioni. Gli racconto dei suoi studi in una scuola di recitazione qui a Roma, del fatto che un giorno me lo sono immaginato lì, fra il pubblico di Zelig. Ho immaginato che per qualche assurdo motivo l'avrebbero chiamato sul palco, e lui avrebbe intrattenuto la folla investendola di una forza positiva e comica e pura. La stessa che ogni volta ci portava a passare le ricreazioni insieme a lui. Perchè lui era una cura, ci distraeva.
Lui mi chiede perchè odi così Roma. Mi dice che dev'esserci almeno qualcosa di questa città che mi piace. Qualcosa di bello.

Io penso di sì, c'è qualcosa. Ma non è qualcosa di bello. Penso che mi piace Roma di notte. O meglio, guidare a Roma di notte. I miei viaggi dentro la città lunghi metà serbatoio. Di quelli che non sempre hanno una meta. La decadenza, quella patetica e destabilizzante della periferia ad est. Il buio e i suoi palazzi che sono brutti. Veramente brutti. E in quei momenti capisco perchè non ci sia luce. Sento di essermi abituata a quella bruttezza, perchè è casa, in un certo senso. Sento continui rigurgiti di sconforto e mi convinco sempre più che m'abbia fatto bene, la periferia. Che già così io sono troppo morbida. Che probabilemente vivendo al centro sarei stata una persona orrenda, tanto quanto Rebibbia e Montesacro e Pietralata e Talenti e Sempione e Ponte Mammolo. Invece l'orrore adesso ce l'ho solo tutto intorno, e conservo quel piccolo orgoglio tipico di chi vive in borgata. Un orgoglio ignorante che non rivelo mai a nessuno, nemmeno a me stessa, perchè non è mio, è di tutta la gente che trascorre la propria passiva esistenza in queste limitanti distese di cemento e piattume. In macchina mi infilo nei loro vicoli, e mi perdo sempre. Io le strade della mia zona non le conosco.
Ma conservavo comunque quell'orgoglio un po' criminale e malandrino, che a quindici anni mi divertivo ad ostentare al liceo. Che io, il liceo, me lo scelsi al centro. Sì, il vero orgoglio in realtà non c'è, non ce l'ha nessuno, in borgata.
"Qui piove? A Rebibbia no. Rebibbia ha un tempo a parte. Non ci credi? Sfido. Rebibbia è come un paesino, lo vedi, con la sua via principale, lunga e stretta, la sua Chiesa, il suo carcere, le sue case popolari, i suoi bar, le sue palestre, tutto concentrato sulla Casal de' Pazzi. Le nostre comitive, i nostri spacci, i nostri pestaggi ed accoltellamenti, i nostri ladri, tossici, pedofili, i nostri zingari ai quali abbiamo bruciato i loro accampamaenti, e i retaggi della polizia, e gli amici agli arresti domiciliari e gli orari dei pusher e la rivalità con Inacasa e San Basilio. E il nostro clima. Oggi a Rebibbia c'è il sole. No, è inutile che fai quella faccia. Non sono io a prenderti per il culo. E' Rebibbia che prende per il culo Roma intera." Portavo una sigaretta alle labbra, inspiravo, e poi buttavo il fumo in faccia al malcapitato. Poi ridevo amaramente con G.

Vendevamo storie che poi ritrovai in alcuni angoli disperati di Napoli. Storie mirabolanti e catturaorecchie che si raccontano solo quando non è rimasto nient'altro da raccontare, perchè non c'è mai stato nient'altro. Storie che piacciono tantissimo, storie che trasudano tristezza e vuoto. Che la decadenza di quegli angoli si trasmette come un virus alle persone che vi abitano. L'altro giorno passavano 'Una vita violenta' in tv. Un altro moto d'orgoglio irrazionale, nel vedere le mie zone vecchie di cinquant'anni. Nel sapere già che quella storia non finirà bene, perchè si sà che qui la speranza non c'è.

L'altra notte ci sono passata, davanti al mio liceo. Che quando ti infili in via Carlo Alberto, la Basilica di Santa Maria Maggiore ti aggredisce coi suoi pugni di marmo. E quella luce, quella dannata luce artificiale che la rende ancora più maestosa e paurosa. Una calamita, che mi ha portata a girarci intorno, a rollare una sigaretta in via dell'Olmata, appoggiata al portone della scuola, senza mai guardare le mie dita, con lo sguardo verso la chiesa. In quanti modi diversa l'ho vista, per cinque anni. Eppure, in realtà non l'ho mai vista, nelle mie corse, fra i turisti, in mezzo alla pioggia. Nemmeno in quel momento mi pareva di vederla sul serio.
Mi viene voglia di correre, in quei momenti. E così in due minuti imbocco Piazza dei Cinquecento, che ogni tanto viene illuminata di verde o di rosso.E ancora una volta ci passo intorno, e riprendo Via Cavour, piena di ricordi di baci, ripetizioni, e gelati siciliani sparsi nella Suburra, e arrivo al Colosseo. La mia guida del tutto inesperta si fa spericolata e pericolosa. Ci vuole di più, ci vuole qualcosa che faccia ancora più male. Come la Cristoforo Colombo, come via del porto fluviale. Come quel ponte stretto stretto ed industriale e metallico e pieno di buche da percorrere a 30 km/h, e che io non rispetto, perchè non ho il senso della misura, nè della distanza, e mi butto sempre al centro occupando le due corsie, e quando mi vedo arrivare un furgone sterzo violentemente, abbagliata dai suoi fari, sperando di non toccare il marciapiede. Ma non rallento mai.
In quelle notti, se c'è la musica giusta, tutto diventa giusto. Ogni volta che programmo di tornare verso casa uno strano entusiasmo mi pervade. Perchè so che quelle ruote sotto di me troveranno delle soddisfazioni sull'asfalto della Tiburtina. Perchè la Tiburtina è la via più bella da percorrere, quando è notte inoltrata. Perchè la Tiburtina è una delle vie principali di Roma, una di quelle che collega tutto tutto tutto, ma al contrario delle altre conserva ancora una familiarità, una personalità che non si trova facilmente nelle altre, che sembrano concepite e adattate solo per la corsa.
E così il pedale s'abbassa, e io mi godo il gelo del vento. Certe volte non ho voglia di svoltare per la Casal De' Pazzi. Così continuo. Arrivo fino a Villalba. Anche la zona in cui vive mia nonna si affaccia sulla Tiburtina. E' bello, mi piace, mi sembra di vivere in parallelo con lei. Penso che se in linea d'aria percorressi quella distanza in un'unica retta, equidistante dalla grande via romana, mi ritroverei nel suo salone. Quando arrivo lì, sotto casa sua, mi fermo. Ma certe volte nemmeno scendo. Ricomincio quasi subito il mio viaggio per il ritorno, osservando le industrie, i magazzini, le puttane. Eppure non trovo mai una notte abbastanza ispirata, una notte che mi dia il coraggio di fermarmi da loro e parlare.

Questo di Roma mi piace, sì. Ma non del tutto. Nascono ogni volta, in me, sempre le stesse domande. "Come può esserci così poca gente in giro? Come fanno a non accorgersi che è questo il momento da vivere? Possibile che nessuno veda ciò che vedo io?" E allora mi ricordo che ogni città, ogni quartiere, ogni zona, ti mette addosso il suo carattere. E penso che Roma il suo, di carattere non me l'abbia dato, al contrario degli altri. Ancora una volta con Roma, io non sento contatti.

Stanotte, e proprio ora, le mie finestre sono aperte. In uno dei vecchi casali del Parco d'Aguzzano stanno suonando delle tarantelle. Hanno fatto un buon lavoro, con quei casali. Hanno trasformato una vecchia e grande stalla in una biblioteca. Certe volte andavo a studiare lì, immersa nel verde.

Sì, mi piace questa musica. Ma ecco, il bello di Roma sono i suoi ricordi, i ricordi che ti dà. Quei casali occupati dalle famiglie di vecchi amici o da stranieri dell'est, il blitz, lo sgombero da parte della polizia. E via, tutti per strada. E poi le porte e le finestre murate, e poi mesi dopo la disperazione di altri, e altre occupazioni. E le lotte perchè non fossero assegnate al carcere. Eccola, la bellezza, ora. Ma quale cazzo di bellezza? E' un incubo costante. Ogni volta il malessere del quartiere si fa sentire. Come una maledizione, avvolge sempre tutto, anche il fiore più spettacolare.

(Ora stanno suonando Gli anarchici di Leo Ferré. Eh, chiunque non viva qua ci cascherebbe, si lascerebbe abbindolare da questa piccola speranza. Che non ci siano solo spacci e vite violente.)

Sì, mi piace proprio questa musica.
Anche due settimane fa avevano organizzato un piccolo concerto privato. Un folto numero di ragazzi e ragazze si erano raggruppati la notte prima dell'apertura delle scuole. Io ero sveglia, ascoltavo quella musica, mentre scrivevo qualcosa. Alle due di notte cominciarono le urla, gli strilli. Io ho chiuso gli occhi e c'ho fumato una sigaretta, nel buio, sopra a quegli strilli. Rassegnata, proprio come una vera ragazza di borgata, che sa come vanno le cose, lì da lei.
Che tanto lo sapevo, quei ragazzi, i fascisti li stavano massacrando.

Io ci provo, a pensare a ciò che mi piace. Ma, purtroppo, è vero ciò che dice quel proverbio.
Tutte le strade portano a Roma.

Tutte le rassegnazioni portano a Roma.

lunedì 17 settembre 2012

Ssssh.


E' tornato. Dopo anni.
E' stato sempre con me. Per anni.
Mi ha cresciuta, mi ha dato la sua forma abbracciandomi, mi ha baciato. Ha aspirato un soffio dentro di me, non me l'ha più ridato. Quel soffio me l'ha tolto dalla gola, scaldando la laringe, raffreddando i suoi muscoli.
Mi ha mordicchiato le orecchie, rendendomi sorda. Mi ha accarezzato la fronte, azzerando meccanismi e ricordi, instillando della concentrazione.
Ha incrociato le sue mani con le mie, ha trasferito magie dalle sue unghie alle mie. Io grazie a lui, con queste mani ho fatto delle belle cose.

Poi mi ha lasciato. Se n'è andato e mi ha lasciata sola, con le sue benedizioni. Senza foglietti illustrativi. Senza poter leggere quella lista infinita di effetti collaterali.
E allora io rimanevo con lui tutto dentro di me, e nulla di lui tutt'intorno. E non era più come prima, ed era spaventoso.
Non può funzionare così. Non si è pronti a cose del genere.

Ma ora. Ora è diverso. Ora non ho paura di niente. Perchè lo so che non c'è niente da cercare, intorno. Il mondo è una piccola scatola vuota. Quella finta dignità che mascherava orgoglio l'ho buttata via. Probabilmente il suo passaggio negli anni della formazione lasceranno sempre delle orme nel mio modo di parlare ed esprimermi, ma non nel mio modo di volere ed ottenere le cose. Di ottenere lui.

Ho trovato i suoi indirizzi. I posti che frequenta.
E io una notte che mi è parso di sentirlo, l'ho seguito.
Mi sono messa addosso la mia Opel, non ho acceso la radio. Ho abbassato il finestrino, cercando il primo vento freddo di settembre.
E l'ho visto. Come in un flash. Da viale dell'università, salendo verso gli archi di Termini. Quella luce che li irradia, i pioppi a disegnare i confini di una larga distesa di cemento. Era bellissimo. Lo rincorrevo di spalle. Lui si è accorto di me, si è girato, mi ha guardata negli occhi. Una scintilla mi ha trafitto il cuore.

"Tu. Tu sei l'unico in grado di farmi piangere per Roma. Tu sei l'unico dal quale mi lascerò picchiare ed accarezzare sempre. Tu mi hai lasciata. E io ti sto lasciando. Ma io ora, qui, davanti a queste luci, dietro a questo muro di treni, io ti supplico di non abbandonarmi. Vieni con me. Tu lo puoi fare. Sbagliai, e lo sai. Ti ho frainteso in tutti questi anni. Ho provato a maledirti quando ancora eravamo vicini, e tu m'hai fatto male. Me l'hai fatta pagare, e io ho superato tutte le tue prove.
E ora io ti merito. Non importa con chi tu sia. Io sarò sempre la tua amante, io ti dividerò sempre con altri ed altre, ma sarai solo mio. Io sarò tua e di nessun altro."

Lui non pronuncia nulla, come sempre. La sua mano è sulla mia guancia, il suo vento mi sussurra che non litigheremo più. Che verrà a Trieste con me.
Si volta. Scompare dentro ad un angolo di buio.  Scompare in un suono di clacson prolungato. Una macchina dietro di me. Ed io mi ritrovo ferma in mezzo alla strada.
Spingo sull'acceleratore e continuo a cercarlo.

Lo ritrovo dopo ore. In una stanza. Mentre ero sdraiata a letto, mentre ero stanca, perchè la notte non s'era arrestata un attimo. Mi ha parlato in ogni istante, mi ha buttato addosso flussi di parole inconstrastabili.
L'armosfera si inonda di un argento fresco. La finestra si lascia guardare, ma non oltre. Una cornice di un quadro, un quadro dorato. Non c'è profondità. Non c'è un fuori. Fuori non c'è nulla.
La mattina arriva, e la notte smette di parlare all'improvviso. Ma io non me ne accorgo, cullata dall'odore di una pelle. Lui. In quel corpo, in quelle spalle sulle quali poso le mie labbra, in quella schiena dentro la quale nascondo gli occhi. Sulle mie mani avverto dopo tanto tempo quella magia che mi aveva stregata. Un marmo liscio e caldo mi riporta alle nostre mani intrecciate di secoli fa.
Tutto sembra immobile. Mi sembra di essere dentro una goccia di rugiada. La testa è leggera, e dentro di lei lui mi dice che stiamo facendo l'amore, che lui mi rivuole con sè e mi ama come prima, e che anche quando mi farà male, io saprò sopportarlo, perchè ora abbiamo pareggiato i conti, ora non potrò più tradirlo. Ora sono forte come lui. E mi dice che per farsi perdonare si sta lasciando condividere. Quella sorta di amore fermo, immobile, d'atmosfera, lo stiamo facendo in tre.

Il calore di quell'istante. Delle braccia lontane da me, nascoste, che rollano due sigarette. Il rumore di lente dita su una cartina. Il rumore ovattato della lenta lingua sulla colla. Un click infuocato. La carta che si consuma. Una mano che si avvicina alla mia, altre scintille, una sigaretta che è mia. Dei minuti che parevano ore, un mantra fatto di piccoli suoni leggeri e ordinati, nitidi. Una nenia che è in realtà senza suono e senza dolore.
Bacio la sua pelle. Poi mi lascio penetrare dalla prima boccata di quel fumo, l'ennesimo di quella notte, il primo con lui fra di noi.
Altri polmoni si alzano. Si abbassano in contemporanea ai miei.
Poi una voce, che viene da lontano. La mia voce preferita, più della sua.

"...Questo, Arianna... Questo è stato un silenzio. L'hai sentito? "
Sorrido. Scopro gli occhi dalle sue spalle. Ora vedo un corpo in carne ed ossa, una nuca contornata dai suoi lunghi capelli.
Lo so. Me l'ha detto stanotte mentre ti raggiungevo. Me l'ha detto ora, che mi avrebbe perdonata. Che sarebbe tornato. Me l'ha detto, che mi avrebbe regalato qualcosa di sè, con te.

Il mio silenzio. Il mio silenzio sereno, quello che non trovavo più da anni. Quello in grado di rendermi una persona migliore, di farmi concentrare, di farmi amare.

Il silenzio, finalmente è tornato e non mi fa più male. 
Un silenzio che mi accompagnerà in grandi cose, e che sarà le mie più grandi cose mai create.
Ssssshhh.

martedì 11 settembre 2012

E tu tornerai dall'estero, forse tornerai dall'estero.


Non volevo scrivere. Non avrei voluto scrivere fino a domani.
Perchè sono a Roma, sono tornata. Perchè ho fatto i test d'ammissione per la SSLMIT di Trieste. Perchè in quei giorni non ho parlato con nessuno, mi sono chiusa nel silenzio, e in questi ultimi tre giorni successivi avrei dovuto fare altrettanto, perchè il silenzio è buono. Il silenzio mi rende forte, certe volte.
E invece scrivo ora, perchè non ne ho più bisogno. Ora posso esplodere, sputare gridi e scattare in piccoli salti.
Un messaggio è arrivato, così, stamattina, improvvisamente. Una mia amica che mi avverte. La lista degli eletti è già su Internet. E' possibile immaginare il proprio destino un giorno prima di quello che pensavo.

E così l'ho saputo.
L'ho saputo, dopo un fallimento alla stessa facoltà, dopo una depressione, un aborto ed una relazione consumata, dopo che me ne sono andata all'estero, e Parigi in aprile mi ha salvata. Parigi mi ha detto che posso essere serena. E Parigi in luglio mi ha detto che posso essere migliore. Me l'ha data, questa marcia in più.

E così mi sono ritrovata all'inizio di una lista che mi sembrava infinita.

Mi hanno presa. Sono adatta, sono brava.
Mi hanno presa, l'ho saputo stamattina, e sono libera, e felice, e non vedo l'ora di cominciare ciò che sogno da anni.
E sono fiera di me, in queste ore. E penso alla mia personalissima versione del karma. Penso che me lo merito, dopotutto. Senza modestia, che la modestia mi ha fatto ammalare troppe volte.

 Sono fuori di me! Fuori di me!  Ho vinto!

sabato 4 agosto 2012

Un altro utero alterato.

Erano le due di notte.
Tornavo da una serata con K (quello idiota, non il nostro). Rivolevo Il Capitale, che prima o poi lo leggerò e ci capirò qualcosa e Guida al Novecento che è la mia Bibbia dopo il Becherelle. Io gli ho riportato una felpa e il suo merdoso On the road. Ho fatto finta di dimenticarmi il libro di russo del '45 e i suoi vinili di conversazioni russe della zia defunta. Ma tanto non li voleva.
Poi una birra a San Lorenzo. E i suoi soliti progetti pieni di ottimismo, il suo affidarsi a persone che gli faranno favori e che gli risolveranno la vita. Mai che conti sulle sue forze. La noia. Avrei voluto andarmene. E invece ho recitato, come se la sua vita fosse di gran lunga migliore della mia. C'è stato un principio di discussione, ma l'abbiamo soffocata con non poco imbarazzo.
Che persona noiosa, che intellettualoide da quattro soldi, che ego spropositato rispetto alle sue reali capacità.

Ritornavo quindi in macchina, col mio audiolibro di 1Q84 di Murakami Haruki in francese.
Le due di notte, erano, quando mi sono ritrovata a percorrere la via della mia casa.
E improvvisamente due piccoli fari. Due piccoli fari gialli sulla strada, che puntavano verso di me. Ho sterzato disperatamente e pericolosamente, evitandoli. Ho parcheggiato. Sarei voluta tornare a casa. Ma qualcosa mi diceva di tornare lì.
I metri si accorciavano, e pan piano riuscivo a distinguere quella forma. In mezzo alla strada un gatto. Un bel pelo lungo, di un bianco sporcato dalla randagità e dalla vecchiaia. Un mantello perlato. Gli giro intorno, per conoscere il muso. I suoi occhi che poco prima mi stavano investendo.
Lo fisso, mi muovo, e percepisco anche il suo, di movimento.
Questo gatto è vivo.
Sdraiato, sulla strada, sembrava starsene lì, illeso, come quando prendono il sole. Ma qualcosa non andava, no.
Mi avvicino un po' di più, lo guardo meglio. La bocca era un po' aperta, si intravedevano i canini.
E non c'era movimento nei suoi occhi, mi sbagliavo. Degli occhi aperti, fissi sul nulla.
Ho cominciato a guardarli, e più passava il tempo, più qualcosa prendeva possesso di me. La paura.
Quei fari spalancati, che ancora riflettevano la luce su un corpo privo di vita. Gli occhi di un terrore, di chissà quale morte. Ero ipnotizzata, impietrita. Non riuscivo a staccarmene. Lì, in mezzo a quella strada, alle due di notte, avreste visto una ragazza affacciata col suo corpo vivo su quello di uno morto.
Mi dicevo 'fai che si riprenda, fai che sia vivo, fai che si muova, che io sappia che non sia quella la faccia della morte, perchè fa troppa paura'.
Ma non succedeva nulla, e qualcosa dentro di me cresceva.
Poi un click in testa. E ho cominciato a correre verso casa. 'Corri, se non vuoi urlare'.


Io ho una gatta.
Tornata da Parigi mia madre mi ha detto "Forse sta male".
Buffy sta male.
Ha un'endometrite, e anche grave. Lei è attiva, sveglia, come sempre, anche se forse un po' meno. E invece potrebbe morire di setticemia. Ecco cosa cazzo succede a lasciare il proprio animale per un mese ai miei genitori. Ecco cosa succede quando lasci solo un animale che ha soltanto te. Perchè lei odia tutti, tutti tranne me. Lei è una bastarda, ma da poco ho scoperto che possiede del sangue certosino. Lei è il gatto-cane. Mi fa le feste e mi difende da tutti.
Sono tre giorni che la veterinaria viene, e insieme la torturiamo. Ieri le abbiamo fatto uno di quei siringoni per l'antibiotico, quelli dal diametro di 4 o 5 cenimetri, quelli che anch'io avrei paura a farmeli fare. Io la tenevo con i guanti da giardino, perchè ormai non ne può più, ormai ha capito cosa le dobbiamo fare, e fa di tutto per difendersi, e io la amo per questo. Quando il liquido ha cominciato ad entrarle su per la collottola si è disperata. Ha cominciato a divincolarsi come poteva, tanto che ormai non mi sentivo più le dita, e le braccia mi facevano male. Nemmeno tre chili di gatto, e il suo istinto che invece mostra la forza di un uomo.
E poi il suo urlo. Un urlo acuto e soffocato, intenso e disperato. Un urlo che io non credevo fosse capace di fare. Che non le avevo mai sentito fare. Finchè poi non si è arresa alla fatica del dolore, con un lamento continuo, e una zampa sopra al muso. Un'espressione così umana. E a me pareva di violarla, nello stesso momento in cui la stringevo ancora più forte e sibilavo per farla calmare. Il mio era sangue freddo, e l'ho fatto solo per lei.

Quando e se l'infezione guarirà, occorrerà operarla subito. Ed il suo utero le sarà strappato via.

Io ho pensato molto a questa cosa.
Ho pensato a quanto sia stata stupida a non sterelizzarla, semplicemente perchè non volevo metterla sotto i ferri, e invece ora mi ritrovo esattamente allo stesso punto e col doppio dei rischi.
Ho pensato a quegli occhi morti sulla strada, che mi sanno di presagio.
E ho pensato al suo utero e al mio, e mentre lo facevo mi sono ritrovata un sorriso amaro in faccia.

A lei che è un fottuto gatto ma ha il mio carattere, che sono 8 anni che stiamo insieme in questa casa, appiccicate. Che ogni volta che la mattina suonava la sveglia, per non farmi addormentare mi attaccava i piedi e io la volevo uccidere. E che quando ero depressa lei lo sentiva, e me la ritrovavo sempre accanto. E quando piangevo, e lei si avvicinava un po' di più, e mi sfiorava di tanto in tanto. E quando è incazzata e glielo si legge in faccia. E i suoi miagolii quando ritorno da un lungo viaggio, che secondo me  è perchè mi insulta e mi da della stronza. E il suo essere sulle sue con tutti, ma quando la gente piace sul serio anche a me, lei è tranquilla e per un po' di tempo si fa anche accarezzare.
E il mio lasciarla sola per altre due settimane, ora. Domani parto per l'Inghilterra, e lei sarà sola ed ammalata. 

Ora è accovacciata su un angolo del divano, gli occhi vispi, come sempre, ma la stanchezza percepibile. Perchè lei non è mai stata sul divano.

Lei è forte, e non la fottono.
Gli occhi della morte sono diversi dai suoi.
E il suo utero diventerà alterato, un po' come lo è stato il mio.


Il mondo è un posto strano. Certe volte mi sembra che mi dia gli anni a tema, come se fossi ad una continua ed infinita festa in maschera. Ancora non ha capito però che io a queste feste non mi diverto così tanto.

mercoledì 1 agosto 2012

To Rome with hate.

Sono tornata a Roma ieri sera.



Mi sono fatta un pianterello a Fiumicino, uno stamattina dopo aver realizzato di essere nel mio letto, e uno a pranzo.
Ma va meglio. Pian piano mi adatto all'infelicità.
Sarò viziata, o quello che vi pare, ma io non riesco, non riesco proprio. Non riesco ad adattarmi alla mia vita. Non la accetto. Mi fa schifo, non sono io.
Io ho bisogno di volare, di viaggiare, di conoscere, scoprire, cambiare cambiare e cambiare sempre. Ho bisogno di sentirmi altrove, in ogni istante, per poter essere io.
E' che sento un grande squallore tutto intorno a me. Lo squallore è una cosa che proprio non sopporto.

Scusate, mi viene da vomitare.

giovedì 26 luglio 2012

Cause (e conseguenze?) dello stato interessante.

Cos'accade?
Eh. Nulla, nulla di nuovo. Se non fosse che ultimamente, dopo il mio micidiale incontro col francese non francese, ho ricominciato a pormi quelle domande che erano lì a galleggiare da un bel po'.
Io lo so che sono fatta così. Da sempre, ho cercato il dolore. Ma nemmeno. Cercavo l'astruso, il complicato, il difficile, il sofferto e sudato, il faticossissimo. E ci sono sempre cascata dentro, facendomi risucchiare.
Ergo, non ho molta confidenza con la serenità, il piacere, la gioia, quella pura. Il lasciarsi andare. Che se mi lascio andare è sempre in negativo. Lascio sempre andare le parti peggiori di me.

Dicono che il sesso sia estremamente legato al cibo.
E io col cibo non ho mai avuto un buon rapporto, nemmeno da piccola. Mi ha sempre provocato dolore. Mal di stomaco perenne, ogni volta che infilo qualcosa in bocca e non mi sdraio almeno venti minuti per digerire. Pesantezze, nausee. E poi odio. Ossessione allo stesso tempo, necessità allo stesso tempo. E quindi una frustrazione estrema, ogni volta.
E ultimamente ho capito che il sesso, il mio sesso, può essere descritto con gli stessi esatti aggettivi, allo stesso modo.

Non mi sono mai masturbata sul serio. L'ultima volta risale a sei anni fa, più per curiosità che per altro. E in effetti mi sembrava di stare assistendo alla mia stessa visita ginecologica. Niente di niente.
Quando sento quella voglia, non la collego allo sfogo fisico, semplicemente. O comunque, non riesco a sfogarla fisicamente, quindi se ne rimane lì a latitare, dentro di me.
Non ho mai avuto un orgasmo. O almeno credo. Voglio dire, se l'avessi avuto me ne sarei accorta, no? E se anche l'avessi avuto, allora non è poi questa gran cosa, anzi.
E' un circolo vizioso, perchè il piacere potrei prendermelo, avrei il diritto di prendermelo. E invece non so mai come gestire la situazione, perchè qualunque cosa faccia non mi suscita il benchè minimo brivido. "Usami", mi sono sentita dire.
Ma io non so che farmene, di te. Vorrei, ma staremmo qui a perder tempo, perchè io non sento niente.

Adoro tutto ciò che c'è prima del rimanere lì, nudi. Li faccio impazzire, e loro fanno impazzire me. Riesco ad infilarmi nei desideri dei loro istinti iniziali, a rispondere alla reazione di ogni loro muscolo, col solo scopo di farmi desiderare, perchè è quello il segreto. E' il loro sospiro affannato, le loro gambe che tremano, le loro unghie che mi distruggono, a smuovermi il sangue. Io mi dico che è la volta buona, loro si dicono che stanno per farsi la scopata migliore della loro vita. Poi ci si ritrova in uno scontro fra corpi incongruenti, che certe volte si conclude anche con quegli estenuanti silenzi imbarazzanti.
Quando doveva essere amore mi sentivo sola, e piangevo sotto i colpi di un menefreghismo sconcertante, senza che lui se ne accorgesse. Quando non lo era mi chiedevo semplicemente cosa stessi facendo.

Sono convinta che a me il sesso piacerebbe tanto, se lo avvertissi, se lo sentissi.
E' che visto che non sono ingrado di ricevere pensavo fosse meglio dare sempre. Dedicarsi completamente all'altro, ogni volta. Ma dare, dare, dare. Dare prosciuga, se non ottieni nulla in cambio. Dare e basta ti fa sentire peggio di una puttana. Nessuno ti ripaga, ma nemmeno ti paga.

Probabilmente è la testa che non funziona. Mi sono fissata, dalle prime volte. Mi sono chiusa in un ambiente apatico. Ma no, nemmeno quando mi sentivo la ragazza più libera e felice della terra, nemmeno in quei momenti.
E allora pensi che è il corpo che non funziona. Guardi quei fianchi troppo larghi, e ti dici che è per questo. Pensi ai danni collaterali dell'aborto, e ti dici che è per questo. Pensi a tutte le puttante di teorie dei ricercatori, e ti dici che è vero. Certi corpi non sono fatti per il piacere. Il mio è uno di quelli.

E io non me ne farei un cruccio, sul serio. Una frigida non ha problemi ad essere frigida. E' solo che non capisco. Io lo amerei, il sesso, lo giuro. Non capisco perchè sia così, ogni volta. Perchè un'Arianna che mi abita in pancia abbia deciso ciò. Perchè il sesso mi allontani dalle persone invece di avvicinarmi.

Ho solo paura che possa capitare quando sarà Amore. Di trovarmi sola, staccata, distante. Ho paura che il mio corpo manderà tutto a puttane.

Il mio dannato corpo.
Come sempre. Da anni, in forme sempre diverse e soprendenti. Come una gravidanza.
Ma alla fine nulla di nuovo. Veramente nulla di nuovo.

lunedì 16 luglio 2012

Sapori lontani.

Sono dei sapori lontani quelli delle ultime giornate, delle ultime nottate. Dei sapori che hanno la stessa consistenza del passato, ma i brividi sono tutti nuovi.
Sono forte. E' vero, non ci credevo, non lo sapevo. Sono una bambina che ha poco più di vent'anni e che è forte. Ho imparato a stare da sola, e ho imparato a stare in mezzo alla gente.
Una bambina dai capelli rossi che vaga fra le vie di una città sconosciuta. Senza genitori, persa, stringendo il suo orsacchiotto di peluche, una sigaretta. Mille sigarette. Che non ha paura di niente e di nessuno.
Che sorride a tutti, perchè vuole conoscere e farsi conoscere da tutti.

Una pelle nera si è posata sulla mia color latte. Guardavo le nostre mani intrecciate, sull'ultimo treno preso per un soffio; un fiatone lungo mezzo viaggio. Ipnotizzata dalla perfetta combinazione, dalla perfetta e bilanciata intensità di chiaro e scuro fra di noi.
- Nous avons d'la chance, ma petite - Laisse tombeeeer, putain.
Mi sento una piccola sposina. Ogni notte è nostra, e non c'è mai nessuna fretta, nemmeno quando si corre.
Nel cuore di un buio spaventoso, fuori dalla città, ci siamo seduti sul ciglio di una strada a fumare. - J'vais fumer tranquille.  - Mais, tu sais, moi aussi.

Penso a quando era aprile. Il primo aprile. E ora di nuovo il dolore, quello fisico. E lo sforzo mentale, l'immenso sforzo mentale. Pensavo a dove mi trovavo, ad aprile, e a dove mi trovo ora. Con la mia vita, la mia storia, i miei luoghi. Pensavo che non me ne frega più un cazzo del passato, che io voglio vivermi ogni cosa bella, voglio vivermi anche la sofferenza. Ma voglio decidere io. Così ho levato le mie mani dalla faccia, e ho smesso di fare no con la testa.

Ho smesso di fare i capricci.

Quello stesso sapore lontano mi porta il sale delle lacrime, di quelle migliaia di lacrime spese in questi ultimi mesi. Una sofferenza che conoscevo bene. Ma ora delle dita mi toccano e mi asciugano, altri occhi piangono con me. Il nuovo sapore di un diverso sale.

Non pensavo che sarebbe accaduto dopo solo tre mesi. Di essere pronta, in un certo senso, già. Non pensavo di essere così forte.

Già. Così forte.

Talmente forte che ritornano anche i sapori di anni fa, stavolta. Quelli veri. Quelli degli attacchi di fame a tutte le ore. Quelli che sei in classe, un compagno compra dei biscotti per il compleanno, e tu sei lì seduta, che ne hai già mangiati tre, uno in più rispetto a tutti gli altri, ma non riesci a smettere di fissare quella scatolina. La lezione continua, tutti seguono e chi non segue fa altro, e tu ti giri ogni tre secondi a guardare la scatolina.
Quegli attacchi di fame che venivano dai vuoti. Vuoti di stomaco e vuoti di anima. Ricordo il sapore di ogni morso, perso o inghiottito.
E' cominciata ieri notte. Pensavo fosse solo semplice fame. Ma invece erano le 3, ero tornata da un'ora e mezza, morivo di sonno, e non smettevo. Ho continuato oggi, e non mi sono sentita davvero a mio agio a mangiare con la gente, perchè avrei voluto levar loro tutto quello che avevano davanti e sbranarlo.

Ritornano certi processi mentali. Così, improvvisamente. E' il processo di un digiuno che ormai è alle porte, non posso fermarlo.

Ma io lo so, so tutto.
Accade ogni fottuta volta che mi sento forte. Ogni volta che mi sento bene.
E allora voglio di più, pretendo di più, perchè so di avere il potere.

Chissà cos'accadrà, alla bambina dai capelli rossi in terra straniera, con tutti questi sapori lontani scritti sulla lingua e fra le gambe.

giovedì 12 luglio 2012

Une vi(ll)e très agréable.

Insomma, ricapitolando:

"Seguo un corso alla Sorbonne":

- Il professore non è bello, di più. Non è figo, di più. Non è simpatico, di più. Uno dei neri più carismatici, attraenti, dinamici che abbia mai visto. Con quegli occhiali che gli danno il giusto grado di 'uomo accademico' e sti fottuti denti bianchi che di prima mattina ti uccidono gli occhi di bellezza. Credo sia gay.
- La mia amichetta di banco è un'ebreuzza. In realtà lo è la madre, lei non so, ha questa catenina importante con la stella, ma di più non chiedo. Il padre è italiano, lei ha vissuto in Spagna, poi in Argentina, poi in Iraq, ed infine in America, a Boston. Ha 22 anni ed è sposata. Non ha una vita sociale, non esce mai. E' tipo troppo strana. Parigi per lei è Marte. Il mio obiettivo è quello di farle fare una cazzata delle mie entro il 31 luglio. Pian piano... Ci sto lavorando.
- Il corso è di cinque ore al giorno. L'ora di fonetica è divertentissima perchè stai con i cuffioni, il microfono e passi tutto il tempo a registrare cazzate. Ogni tanto metto pausa per sentire le americane che si sforzano di fare le francesi, e rido sotto i baffi. Torno alle 16 e poi devo fare i compiti. Domani ho una verifica e ancora devo  cominciare a studiare. Vaffanculo.
- Le americane sono stupide, la svedese è piccolina e con la vocina, l'autraliana ha una personalità talmente forte da far paura a tutti, l'australiano è tutto mechato, il polacco fa ridere, il colombiano gioca a recitare una parte fra l'hombre caliente e l'homme fatal, gli spagnoli sembrano la brutta copia degli italiani.


"Vivo alla Maison de l'Italie":

- La metà delle persone che la abitano sono italiane. Cercano di mischiare un po'. Marocchine, brasiliane, svedesi. E infatti a cena si parla in francese.
- Il 98% degli italiani sono ricercatori.
- L'1% lavora per delle compagnie francesi (ovviamente in ambito informatico-scientifico)
- L'1% studia materie umanitstiche.
- L'altra sera un fisico spiegava ad un chirurgo l'esperimento che aveva fatto quella mattina, che si sarebbe legato in futuro alla fisica biomedica, per combattere il cancro.
- Quando mi chiedono cosa faccio quasi mi vergogno, perchè nemmeno ho cominciato e sicuramente io non salverò vite.


"Ho un petit ami":

- E' nero, è bello, parla tante lingue.
- Mi manda i messaggini tutte le sere ed è molto dolce. Oserei dire troppo, ma non so. Mi sta bene così, alla fine.
- Ieri mi ha chiamato. Io gli ho detto che costa troppo, e che in più non lo capisco bene, al telefono. Ma lui voleva solo sentire la mia voce. E accertarsi che domani vada con lui a scassarmi da qualche parte. Ovviamente.
- Quando siamo usciti la seconda sera mi ha portato in un discopub. Era una trappola, in realtà i suoi amici non sono mai venuti. A me questi posti fanno cagare, soprattutto perchè non so ballare e non si riesce a parlare come cristo comanda, che già per me qui è difficile. E invece mi sono divertita. Sono tornata alla maison alle tre e mezzo. Del pomeriggio.
Ha pagato tutto lui. Tutto. Cioè. L'entrata, il guardaroba, i trecento cocktail, e pure le sigarette. "Stasera sei libera, non pensare a nulla, al portafogli, alle giacche, al fatto che non sai ballare. Domani non hai nemmeno lezione. Non pensare a nulla, pensa solo a me, e alla tua libertà".
Beh, si, nice try. Mi veniva da ridere perchè sapevo esattamente quali fossero le sue intenzioni.
Però, insomma, sono stata con quel K che in un anno e tre mesi m'ha portato solo una volta al ristorante (e gli ho anche alzato dei soldi che non rivedrò mai più), e... Passare dal dover pagare tutto te al non doverti preoccupare di nulla è très agréable. Mi sta sul cazzo per principio, però, insomma, per una volta... E' stato un bel cliché da provare.


"Parigi costa caro":

- Gli affitti, i trasporti. Sì. 62 euro di abbonamento mensile, ma mi posso girare la fottuta Parigi in lungo e in largo, in mezz'ora sono ovunque.
- Per il resto, manco per niente. Forse mangerò come i criceti, ma con 40 euro di spesa io ci campo per dieci giorni.

Il sole è in alto fino alle 23, fa freddo e fa piacere, ci sono i cinema all'aperto, le donne stanno in giro da sole fino alle 3 di notte senza alcun problema e l'altro giorno hanno trovato un boa di tre metri nella Senna.

Ditemi voi come faccio, io, a tornare in Italia.  Il boa, cioè.
Nun se può, devo trovare una soluzione.

sabato 7 luglio 2012

Incontri a Parigi.

La premessa è che io sono pazza e prima o poi mi metterò in situazioni molto pericolose.

Venerdì sera. Venerdì sera a Parigi.
Venerdì sera a Parigi, sul corridoio della Maison de l'Italie, alla Città Universitaria, intenta a chiudere a chiave la camera.
"Ehi, tu vas où?" (andò vai?)
"J'ai un rendez-vous avec une amie." (me devo beccà co una)
"Nous allons à... J'étais en train de te le demander. Est-que tu veux venir avec nous?" (noi stamo annà... te lo stavo a chiede. Stai a venì co noi?)
"Non, non, desolée, je dois aller. Bonne soirée!" (Te pare. Famme annà. Bella pe tutti)

E esco. Ma mica era vero. Non avevo nessun appuntamento. Stanotte avrei dovuto fare qualcosa di particolare. Non so... Avevo questa sensazione, lo dicevo prima all'umbra laureata in letteratura francese: "Devo fare qualcosa. Qui mi manca ancora qualcosa.". Una febbre, la smania di abbuffarmi. Di qualche emozione.

E così ho preso la RER. Con la cartina in mano, cercavo uno dei tanti luoghi nei quali mi sono sempre sentita in pace. Ma stanotte non volevo la pace, no. Volevo quel 'qualcosa', per questo non sapevo dove andare.
- Non ho mai visto Parigi dal Sacro Cuore di notte -
Attraverso chilometri e chilometri di città, addirittura un fiume, da sud a nord, sottoterra, in venti minuti.
Scale, scale, scale. Il respiro affannato. La musica. Tanta gente. A destra il Sacro Cuore dorato che fa paura. A sinistra la città ai miei piedi. Una città tinta d'arancio. C'è la luna, il cielo è scuro ma non ancora nero, che sono solo le 23, e non so perchè in questo mese il sole ci mette tantissimo ad andarsene. Le nuvole rosate. Se fossi stata una pittrice avrei pianto. Sì, avrei pianto e non avrei dipinto.

Vago un po' fra la gente. Poi scendo un po'. Ci sono dei neri con delle casse che tra di loro rappano. Niente freestyle, ascolto Mockingbird di Eminem. Lui è americano, per forza. Ha un accento impeccabile. Sono contenta, sono sempre contenta quando mi siedo ad ascoltare gente che suona e canta. Dice di sorridere, e io sorrido, catturata da quel gruppo.

Poi accade.
Un ragazzo si siede vicino a me. Non ricordo qual è stata la prima cosa che ha detto. So solo che non so per quale motivo siamo passati a parlare inglese e poi francese e poi inglese e poi francese. Dopo una settimana in cui parli solo per 10 minuti l'italiano e per tutto il tempo francese, tornare all'inglese diventa veramente difficile. La testa mi faceva male, mischiavo tutto.
Ma a lui piaceva.
"Je suis le maitre. I'll be your teacher. Yes. Trust me, in one week you'll be speaking le dialect de la ville" E si prendeva gioco di me.
Ma era serio, non sorrideva nemmeno una volta.
Lui si chiama Tito. Sua madre è del Sudan, suo padre del sudafrica, posto non meglio specificato. Suo padre che poi è morto. Ha tre fratelli qui, uno in America e una sorella in Olanda. L'arabo e l'inglese sono le sue prime lingue. A 12 si è trasferito a Parigi, e ha imparato il francese. Sa un po' di greco, e ora cerca di studiare bene il russo. Da quel che ho capito lui fa qualche lavoro di traduzione, quando capita.

Ma porca puttana, penso. Non è possibile.
(Sono tranquilla. A Parigi sono sempre tranquilla, anche quando mi ferma qualche pazzo. Semplicemente lo ascolto e vedo cosa posso fare per lui. Di solito sono sempre cose sensate.)

Mi dice tutto questo in dieci minuti. E non so come, dopo cinque minuti mi sono ritrovata con una birra in mano, due polacche, un russo e dei neri tutt'intorno. I neri francesi che non sono francesi.
Dio.
Suo fratello mi ha parlato della vita di merda che si fa qui, del lavoro che è fatica, e del suo sogno americano.
Quando con Tito ho pronunciato la parola Balotelli tutti si sono girati.
"HEI HEI! BALOTELLI! SHE'S ITALIAN!"
E da lì è stata la fine. Io, che di calcio non so un cazzo, sono stata eletta regina.
"Hei, chill out, Balotelli is like that! Arianna, tell him that I'm right. She's italian, so she knows."
E io ho cominciato a parlare di Balotelli. Io.

Immaginatevi la scena.
Io seduta su una panchina al Sacro Cuore, circondata da neri, a raccontare e a dare opinioni su Balotelli utilizzando quel poco di slang inglese e francese che so per darmi un tono.

Poi io e Tito. Tito è bello. Ha gli occhi molto seri. Ma quando sorride, tutto il suo viso cambia e ti emoziona, per quant'è vero. O forse è solo un sorriso un po' triste.
Tito è un mascalzone e stanotte mi ha raccontato un sacco di balle. Del tipo che cerca la ragazza giusta, che è da due anni che non sta con nessuna nessuna ma proprio nessuna, che è una persona molto buona e lì intorno sono tutti come dei fratelli e delle sorelle (a questo però ci credo). Che non 'fuma' tanto, che non beve tanto, e che è comunque musulmano, a suo modo.
Ma non mi importava delle balle, non mi importava del fatto che volesse darsi un tono serioso e profondo, un po'. Quel momento me lo sono preso così com'era.
Mi ha detto che lui ha un buon istinto. Inizialmente apre il cuore a tutti, ma gli ci vuole poco a capire chi ha davanti, e quindi prende le misure giuste. Mi ha detto che è stato contento che io avessi capito che non aveva delle intenzioni strane, quando mi ha chiesto di seguirlo.
Perchè quando mi ha visto lì, da sola, a sorridere e a battere il piede, il suo cuore gli ha detto che doveva conoscermi. E gli ci è voluto poco perchè capissse che sono una ragazza apposto.
"You're a nice girl, I like you. That's why I'd like to meet you again. Just if you really want, you know..."
Mi ha dato il suo numero. Io l'ho preso.
Poi se n'è andato e io sono rimasta con la polacca ed un fratello.
Ho preso l'ultima metro per un soffio. Ho camminato per la mia città, sono arrivata qui e non ho sonno.

Non so cosa mi dicano certe sere.
Non so perchè mi sia fidata così ingenuamente di quel ragazzo, che mi ha raccontato storie incredibili e bellissime. Sono degli istinti, credo. Di solito i miei istinti sbagliano quasi sempre. Invece stanotte è stata una notte. Credo una delle più vere vissute qui a Parigi. Il problema sociale e di integrazione che c'è di fondo in realtà non è molto in fondo. La bontà, nonostante tutto. La forza. La mancanza di radici.
Io sono rimasta incantata. Incantata da quella gente.

Probabilmente Tito non lo chiamerò mai, se non in casi di estrema solitudine. E poi mi piace tenerlo così. Tenermi un ricordo, un episodio.

Certe volte mi chiedo quanto sia perfetto il mondo, e quanto sia delicato l'equilibrio. Un minuto in più, un minuto in meno, e alcune vite non si sarebbero mai incontrate.
Chissà cosa abbiamo lasciato, in tutti questi anni, senza saperlo.
Questa notte la scrivo perchè questa notte doveva andare esattamente così. Tutto era in equilibrio. Ho seguito quello che il mondo mi ha chiesto di fare. Come una brava bambina, o un bravo animale.

Vivere un po'.

giovedì 5 luglio 2012

Il perpetuo ricordo della conclusione di uno stato interessante.

Ultimo atto.
Come l'ultima volta. Casa di G. Notte. In tre in un letto da una piazza e mezzo. Il sonno non arrivava, no, o quando lo faceva, se ne andava di fretta. Il calore, l'immobilità. La luce lampeggiante nel corridoio, la sveglia della madre, che è sordomuta, e la mette due ore prima per abituarsi alla luce. Sono andata al bagno. Avevo voglia di bere, ma non potevo. "Da mezzanotte in poi fai come se non avessi la bocca: niente cibo, niente sigarette. Niente acqua".
Tornando, mi sono fermata a guardarle, sotto quella luce lampeggiante. F al lato e su un lato. Uno spazio, poi G. Poi una spanna di letto, il mio lato. Ho sorriso. Avrei voluto far loro una carezza. Mi sono infilata nel mio lato ristretto, e ho atteso. Ogni tanto una ginocchiata di G, ogni tanto una mano che mi sfiorava le guance. Chissà cose sognava. Chissà se sognava, o è una sorta di istinto, il suo, che la fa avvicinare alle persone anche durante il sonno.
Non avevo ansie, non avevo paure. Volevo liberarmi, finalmente.

Mattina. Come l'ultima volta. Il corridoio. Gli ultimi abbracci. Poi dentro altre cinque donne. Una la riconoscevo, era una ragazza vestita molto bene, che era sempre accompagnata dal suo fidanzato rasta e trasandato. Lui se ne stava là, per tutto il tempo, in sala d'attesa, ad aspettarla. Mi sembravano così teneri.

Ci chiamano subito. Tre di qua, tre di là. Noi giovani in una stanza, loro attempate in un'altra.
Spogliatevi, mettetevi il pigiama.
Mettetevi a letto.
Non parliamo. Tutta la recita dell'altra volta non c'era. Troppo faticoso, e inutile, in quel momento. Nessuna ne aveva voglia, eravamo tutte concentrate sul nostro cervello, il nostro cuore, la nostra pancia, e le nostre pareti ospedaliere.
Io dormicchiavo, perchè il tempo intanto passava.
Poi l'agocanula, la bella sensazione dell'ago che entra.
Passa un'ora.
Poi l'ovulo. L'ovulo per dilatare l'utero.

"Una volta inserito, non si può più tornare indietro, dovete essere sicure"

Io non la volevo, quella specie di supposta. Invece me ne sono stata zitta a guardare il soffitto mentre già allargavo le gambe.
Un'altra ora. Perchè deve fare effetto. Intanto ci hanno fatto vestire di tutto verde, e noi lo facevamo molto lentamente, per far passare il tempo. Le altre si lamentavano per l'agocanula, ma era esclusivamente per far passare il tempo.
Avevo sonno, avevo una sensazione strana addosso. Quel silenzio, quella concentrazione. Quei minuti di meditazione, come a voler dargli un significato, a voler farci cogliere la gravità della situazione.

La prima sono stata io. Mi hanno chiamato per cognome, mi hanno trasportato su una barella al piano di sotto. Un viaggio lunghissimo. E' sempre strano stare in barella. Il mondo era sparito, c'ero solo io che viaggiavo fra i corridoi, mentre sentivo che il momento si avvicinava fisicamente. I miei passi verso...

Una stanza di due metri quadri. Mi hanno chiusa lì. Siediti, hanno detto, che dobbiamo finire con l'altra.
Una stanza vuota, una sedia, un tavolo di metallo.
Mi sono portata le mani e lo sguardo alla pancia. La accarezzavo delicatamente. L'ho salutat, gli ho detto che mi dispiaceva veramente tanto, che ero stata una stronza ad averlo concepito,  gli ho chiesto scusa supplicandolo di non condannarmi per l'eternità. Gli ho detto addio. Il calore della mia mano che per l'ultima volta sarebbe arrivato fino a lui.
Addio.

Poi l'anestesista. Le solite domande.
Poi finalmente mi fanno sdraiare, mi fanno posizionare la cambe, collegano l'agocanula a qualcosa...
"Ti chiami Arianna eh? E dov'è il tuo filo?"
E io giuro, che prima di addormentarmi, prima di cercare di rispondermi, avevo capito 'figlio'.
Dov'è mio figlio.

E' successo qualcosa. Qualcosa che non ho capito bene. Dicono sia normale avere delle reazioni strane dopo l'anestesia. Quando mi hanno svegliato per spostarmi nel letto mi sono ritrovata già che singhiozzavo e mi lamentavo. Piangevo senza lacrime. Poi sono cominciate ad uscire. E piangevo e piangevo, nel mio letto, rannicchiata. Il dolore alla pancia, ma del dolore fisico non me ne fregava un cazzo, io piangevo e non sapevo perchè. Urlavo, le infermiere mi toccavano per tranquillizzarmi, o forse per prendermi il braccio per darmi l'antibiotico, ma io mi divincolavo, non volevo più muovermi. Il braccio me l'hanno fatto stendere con la forza. Ma io non sapevo, non me ne rendevo conto. Ero lì e non ero lì. Urlavo e mi lamentavo e non me ne fregava un cazzo di niente e di nessuno. C'era dolore, tanto dolore e tanta rabbia. Li ho tirati tutti fuori, per quaranta minuti. Ho tirato fuori agglomerati di tristezza, ho buttato talmente tante cose fuori che dentro mi sentivo piacevolmente vuota.
Intanto quella dopo di me aveva già fatto in tempo ad andare e tornare.
"Oh, ci hai fatto piangere a tutte, ci sono quelle in corridoio del secondo turno che si stanno agitando". Scusate, scusate. Scusate se non me ne frega un cazzo.
Mi sono ritrovata con una coperta addosso. "L'hai detto tu, che avevi freddo, te l'hanno data le infermiere".

Occhei. Perfetto. Avevo mandato a fanculo tutto. Ora stavo meglio. Le altre parlavano di dolori alla pancia incredibili, tanto da farsi fare una tachipirina endovena.
Le infermiere si sono avvicinate a me preoccupate. "Allora, va meglio?"
"Certo che va meglio. Quando posso uscire?"
"Prova a sederti, fra cinque minuti fatti una paseggiata verso il bagno e vedi come stai".
Mi sono seduta e stavo bene, mi sono messa subito in piedi. Sono andata in bagno, ho messo l'assorbente. C'era sangue ovunque.
Le altre accusavano dolori inenarrabili alla pancia. Io non sentivo più nulla, in nessun senso. Era come se non fosse accaduto niente. Sono uscita dal bagno che ero uno splendore, sorridevo a quelle due povere derelitte.

Una volta vestita mi hanno infilato in una sala. Una giovane dottoressa mi prescriveva un farmaco post aborto, e poi mi cercava di convincere a prendere ottocento ricette di contraccettivi.
Ma io la pillola non la prenderò mai.
E i cerotti nemmeno.
E la spirale non è sicura al cento per cento e la sconsigliano alle giovani.
Ma lei non mi lasciava andare. Non m'avrebbe lasciato andare in giro a scoparmi mezzo mondo, come fossi l'ultima delle troie di borgata, senza le mie preziose ricettine della nonna.
L'anello.
Sì, occhei l'anello. Me l'ha prescritto per tre mesi. Mi ha spiegato tutti i processi.
Sì. Molto interessante.
Non l'ho mai comprato.

L'ultima cosa che mi è entrata d'entro è stata una specie di aspiratore. L'ultima cosa che mi è entrata dentro mi ha levato il mio futuro e incasinatissimo figlio. La penultima me l'ha donato.
Un anello... Un anello è un insulto.
Un insulto.

Sono uscita da lì con la pancia vuota. E' stato strano, stranissimo. Ho pianto, ho riso.
Non riesco più ad essere triste. Ho eliminato tutto, come faccio sempre con le cose dolorose.
Me l'ha detto la terapeuta. Tu hai dei buchi nella memoria, da quando sei piccola. Tu cancelli cose, non importa se è accaduto ieri, tu domani non te ne ricorderai. Lo fai per difenderti. Ma non è il modo giusto.

Lo so che non è il modo giusto, ma per ora è l'unico modo che ho.
Dov'è mio figlio?
Non lo so, l'ho dimenticato.

sabato 30 giugno 2012

La Notte.

Esiste una notte. Un tipo di notte speciale. Qualcosa che avverti nell'aria, un respiro tranquillo ed assordante. Una luna sempre più grande e sempre più gialla. E' esistita questa notte, una notte nella quale io non c'ero più. Una notte che mi chiamava e mi diceva che era lei, che era lei la prescelta.
Il buio, e il mio volare via in macchina, per le strade di Roma. Sapevo che era giusto, sapevo di dover andare. Il Requiem di Mozart assordante e le cento sigarette.
Una notte in cui sono partita. Una notte dentro la quale c'era un appuntamento, e un parcheggiare, e un infilarmi in un'altra macchina. Una passeggera col vento in faccia.
Le strade nere, gli alberi che la stringevano tutt'intorno, i fari spenti per qualche secondo. Verso Fiumicino. Mi affaccio e mangio l'aria boccheggiando, e mi faccio sporcare i capelli dal vento e dall'aria fresca. C'erano i Sigur Ròs, e io portavo fuori la mano, giocavo a braccio di ferro con la velocità.
Il parcheggio gigantesco e desolato. Il primo parcheggio nel quale il branco di cani randagi venne avvistato. Ma via, via subito da lì.
Via, verso i banchi di nebbia. "La nebbia?". Sì, ma forse non è nebbia, forse è altro. Ma ci corriamo attraverso.

Porto. Siamo in Portogallo. Chiudo gli occhi. Sì, sicuramente siamo arrivati in Portogallo.
La notte che mi porta l'odore del pesce e delle barche. Arrampicarsi su una scogliera come fosse una montagna, e poi il mare calmo, scuro come il cielo. Nessuna linea di confine. Nessun orizzonte, nessun limite, solo piccoli riflessi di stelle. Un cielo sottosopra e sottovuoto. Sotto. Sotto, il vuoto.
Credo che stanotte penserai di amarmi. Lo gridavano tutte le cose intorno, mentre io ero silenziosa.
Il tempo di una sigaretta, cinque minuti. E poi via, via, che è ora di andare ancora più lontano. Io lo seguivo come fosse stato una guida esperta. Lo seguivo con degli occhi che erano i miei per la prima volta.
Un centro commerciale enorme, una città desolata e vuota. Mi sembrava di vedere migliaia e migliaia di file di cemento. Le città fantasma, le chiama.

Un altro parcheggio. Quello dei lupi. Io non riesco più a parlare. Non riesco più a dire cose sensate. Comincio un discorso, ma poi non so cosa voglio, da quel discorso. Avevo una testa confusa e leggera, una lingua che non conosceva linguaggi, un pensiero che non sapeva più esprimersi. Un'anima che stava uscendo fuori dal mio corpo, si stava unendo al resto, al buio, al cemento, alla solitudine, a lui. Ero un'anima, e le anime non comunicano come comunichiamo noi. Non posso più dire, non posso più descrivere.
Una stradina che si infilava in mezzo ai boschi. Era andato lì, il branco. Un branco con dei gatti, e un lupo nero. Me lo sussurrava all'orecchio, e io guardavo quella curva, e quell'albero, e li vedevo lì, e vedevo lui lì, distante, vicino a loro. Vedevo cose, vedevo scene. Vedevo le sue parole davanti a me.

Il non mondo. Un treno unicamente per due. Ma tu, tu devi andare, e io sono contento che lo vivrai un po', il vero mondo. C'è sempre tempo per correre sui binari. E a me sembra di tradire qualcosa, ma poi mi dico che come in tutte le cose che mi appassionano, ho bisogno di farle e rifarle, di sbranarle, spolparle fino all'ultimo, per poi liberarmene. Per rimanere nauseata, e lasciare tutto, e finalmente essere pronta. Mi dico questo. Ora ho bisogno del mondo. Ho bisogno di essere là, per poter lasciarlo.

Un viaggio di ritorno lungo, lunghissimo. L'estasi della corsa, mentre due calde mani si tengono strette. Calde, così calde. La libertà della corsa, mentre le mani diventano tre, e una rinfresca la sua. Quella dell'aria e delle gare a braccio di ferro col vento. Serrate, come a voler trasferire brividi.

Una casa. Lui prende in giro i suoi testi, e anch'io prendo in giro i suoi testi, e ridiamo, e io ogni tanto, quand'è così bello e puro lo riporto al silenzio con un bacio. Perchè certe volte c'è una piccola scintilla di pura felicità, e la felicità diventa reale solo se condivisa. I suoi testi io li amo.
I baci dell'addio. Dovevo andare, sì.
E' difficile. Un mese. Un mese in cui potrebbero esserci dei parigini o delle fan. Ma va bene, va tutto bene. Si ritorna, come si è sempre fatto. E ci si allontana, come si è sempre fatto. Non è un problema, perchè noi non siamo reali. Non possiamo, ora. Ora no. Ci farà bene, andrà tutto bene.

Perchè delle notti come questa ci chiameranno e ci riporteranno nello stesso luogo. Un luogo in cui non c'è nessuno.

E' così difficile. Così semplice. Gli uccelli cantano. E' l'alba.

Ancora il Requiem di Mozart. Roma grigia e brillante di freschezza. La luce opaca ma vivace, una luce di speranza, che mi fa stare bene. Pensavo a quello che mi era stato regalato in quelle ore. Pensavo a questo come all'ultimo regalo. E l'addio non c'è più. Il Tevere argentato su via del porto fluviale. Il viaggio in solitaria più bello della mia vita. Un vero addio, di quelli che non hanno rimpianti nè rimorsi. Perchè non c'è un futuro, non c'è un passato. Semplicemente c'è sempre stato e sarà sempre così. Sarà un'alba, e poi un giorno, un tramonto, una notte. Ci sarà la luna, come c'è sempre stata. Io non ci sono più, in nessun luogo. Noi non ci saremo più, in questo mondo. Com'era scritto, come sapevamo. Un addio che mi dice che si sta avvicinando un tempo. Non dice altro, non spiega. Immagino un incontro, e qualcosa che mi dirà "E' tempo", ancora una volta senza spiegare altro. E finalmente capiremo.



Ricorda. Io non ti amo.
No, nemmeno io ti amo. Noi non ci amiamo.
Voglio che tu mi senta, stanotte. Voglio le tue mani sul mio cuore. Voglio che te lo ricordi.

La notte. Questa notte, ogni notte. Ogni cosa, nessuna cosa. Per sempre.